venerdì 9 dicembre 2011

Il pacifismo filonazista di Jean Giono


Siamo i Visitors…veniamo in pace…sempre

Anna – “V”

La grande catastrofe collettiva è più un effetto che una causa. Non è il cielo che la invia, assolutamente. Sono gli uomini che vi si precipitano e la trattengono. È il prodotto, questa la morale della storia, del loro egoismo innato, della loro incapacità a uscire da se stessi, della riduzione della loro vita a dei bisogni elementari. Se non pensano che a salvare la loro vita, quella del clan familiare, sono marchiati da un segno fatale, non riusciranno a sfuggire. Se, al contrario, guardano al di là del loro orizzonte individuale…accumulano tutte le possibilità dalla loro parte
Benedetta Fanizza, “Jean Giono: la ricerca della felicità in Le Hussard sur le toit”, 2002.

Jean Giono (1895-1970) è l’autore del celebre “L’Ussaro sul Tetto” (1951) e de “L'uomo che piantava gli alberi” (1953). Fu anche un collaboratore di Vichy, ossia del Terzo Reich.
Quegli intellettuali e scrittori che collaborarono con il nazismo lo fecero adducendo motivazioni diverse, ma i meccanismi psicologici che li spinsero a farlo erano molto simili, così come la loro abilità nel rimuovere le conseguenze pratiche del loro comportamento. Nel caso di Jean Giono il pacifismo integrale, l’idealizzazione della vita rurale (“il ritorno alla terra”) e lo scetticismo verso il metodo democratico e la modernità in generale lo consegnarono anima e corpo al regime fantoccio di Vichy e al Terzo Reich. Veterano di Verdun, negli anni Trenta, durante l’estate, radunava un circolo di intellettuali pacifisti nel villaggio di Contadour, raccogliendo le loro riflessioni negli Ecrits pacifists. Nel 1939 fu arrestato per attività antimilitari ed antipatriottiche. Nel 1944 fu arrestato nuovamente, questa volta per collaborazionismo e forse per proteggerlo dalle possibili rappresaglie dei partigiani francesi. Durante la guerra aiutò degli Ebrei e dei comunisti, perché erano dei conoscenti, non perché simpatizzava per la causa di chi combatteva il nazismo. Nei suoi diari comunicava il suo disprezzo verso chi resisteva all’occupazione e la sua crudele indifferenza alla sorte degli Ebrei. Non criticò in una sola occasione i Tedeschi. In un intervista del 1941 definì Hitler un “poète en action’: “che cos’è Hitler se non un poeta in azione?”.
Elogiava costantemente i motivi ruralisti della propaganda di Vichy, che vedeva come un regime che poteva restituire i Francesi al legame con la terra, con le radici. Non condannò mai il trattamento riservato agli Ebrei dalle autorità di Vichy, che anticiparono persino i desideri degli occupanti nazisti, per poterli meglio compiacere, emanando leggi più severe di quelle in vigore in Germania
Quando, nel gennaio del 1944, un ex partecipante agli incontri di Contadour, Vladimir Rabinovitch, gli chiese di schierarsi a sostegno degli Ebrei, gli rispose – queste le sue parole trascritte nella pagina di diario del 2 gennaio, che: “non mi interessava nulla, che degli Ebrei me ne frega quanto delle mie prime mutande [‘je me fous des Juifs comme de ma première culotte’], che nel mondo ci sono cose più importanti da fare che preoccuparsi degli Ebrei. Che narcisismo! Per lui gli Ebrei sono l’unico argomento di discussione. Quanto a me, intendo occuparmi di ben altro”.
Giono aveva paura. Lo ammise lui stesso: “non sono proprio coraggioso”.
Traumatizzato dall’esperienza della Grande Guerra, era ossessionato dalla sua sopravvivenza fisica. Nel 1934 scriveva: “non posso dimenticare la guerra. Mi piacerebbe farlo, posso anche trascorrere due o tre notte senza pensarci e poi improvvisamente la rivedo, la risento, la rivivo. E questo mi spaventa. Durante la guerra ero spaventato, tremavo, me la facevo addosso…Preferisco pensare alla mia felicità. Non voglio sacrificarmi”. Questa sua ossessione eclissava la voce della sua coscienza. Scriveva: “vivono solamente quelli che non fanno la guerra, nessuna guerra” (‘Seuls vivent ceux qui ne font pas la guerre, aucune guerre’). Per questo si astraeva emotivamente da tutto ciò che lo circondava. Chiuse occhi, orecchi e bocca, mise a tacere la voce della coscienza, aspettando che passasse la buriana.
Per lui il pacifismo divenne sinonimo di non-resistenza al male. Approvava il non intervento nella guerra civile spagnola, che favorì il colpo di stato franchista contro un governo legittimamente eletto, lasciando impuniti fascisti e nazisti. Per Giono democrazia e dittatura pari sono. La sua opposizione al fascismo passava in secondo piano rispetto all’opposizione alla guerra. Un’opposizione peraltro debole, visto che non si astenne dal frequentare i circoli dei collaborazionisti più inveterati, dallo scrivere per quotidiani e pubblicazioni collaborazioniste, dal godere di buona stampa su quelle naziste e dall’incontrare le autorità occupanti nel maggio del 1944, quando era chiaro a tutti che avrebbero perso la guerra. Fu premiato con ripetuti inviti a Weimar per celebrare il Nuovo Ordine Europeo di Hitler. Nessuno lo costrinse a farlo, fu una sua libera scelta, una scelta di complicità mascherata.
In virtù del uso pacifismo integrale, Giono non riuscì mai a vedere la Resistenza che come una forma di guerra e tutte le guerre per lui erano sbagliate a prescindere. Meglio la Pax Nazista ad uno stato di conflittualità: “Per quel che mi riguarda, preferisco essere un Tedesco vivo piuttosto che un Francese morto”. Riuscì persino a rammaricarsi dello sbarco in Normandia degli Alleati, perché avrebbe riportato la guerra in Francia: “non faccio alcuna differenza tra Tedeschi ed Anglo-Americani, si assomigliano”.
Un gruppo di sicofanti lo spinse ad indossare i panni di saggio e profeta della sapienza bucolica ma, a dispetto del suo impegno pacifista, Giono approvava la prospettiva di una rivolta contadina, anche di indomita crudeltà, che spazzasse via la modernità urbana ed imponesse la sua idea di arcadia, internando i governanti di allora nei manicomi. L’ontologica purezza dell’ambiente rurale era da lui contrapposta alla congenita impurità di quello urbano. Negli anni Trenta avvertì i suoi corrispondenti ed interlocutori che si avvicinavano tempi terribili. Celebrò gli accordi di Monaco, che invece servirono unicamente ad eccitare la voracità di Hitler e del Terzo Reich. Non vide alcuna ragione per cui i Francesi avrebbero dovuto combattere per la libertà della Cecoslovacchia.
Per lui, nel 1939-1940, i governanti francesi erano tanto colpevoli quanto quello nazisti per la distruzione della guerra. Eppure, quando lo stato lo richiamò alle armi, nel settembre del 1939, dimenticò subito il suo volantinaggio antimilitarista dei giorni e mesi precedenti e si presentò al comando dell’esercito, dove gli assegnarono la mansione di segretario. I suoi amici pacifisti restarono senza parole.
Frequentò assiduamente diversi esponenti della Rivoluzione Nazionale (Vichy) e, nei primi giorni dell’Occupazione, si tinse i capelli di biondo e li fece tornare grigi solo in seguito alla Liberazione. Neppure i suoi famigliari credettero alla scusa del sole che gliene aveva schiarito delle ciocche, costringendolo ad uniformare il colore della chioma.

Bibliografia
Richard J. Golsan, French Writers and the Politics of Complicity: Crises of Democracy in the 1940s and 1990s, Baltimore: The Johns Hopkins University Press, 2006.
Richard J. Golsan, “Of Jean Giono and Collaboration: A Response to Meaghan Emery”, French Historical Studies, 33:4 (Fall 2010): 605-624.
Julian Jackson, “The Rural Fantasies of Jean Giono”, H-France Salon, vol. 2, issue 1, #2, 2010

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