domenica 18 dicembre 2011

Ambientalismo per un Mondo Nuovo



La tutela ecologista della comunità, con la valorizzazione delle risorse naturali, elevate ad un tratto distintivo dell’identità territoriale, rappresenta una delle bandiere dei Freiheitlichen […] La piccola patria si caratterizza per la coscienza nazionale e la tutela della natura, per il rapporto mistico con il mondo della flora e della fauna, che unisce i Tedeschi fin dai primordi.
Bruno Luverà

Il mostro del sangue e del suolo, del primato dell’etnia scagliato contro l’altro da sé, un primato del locale rancoroso, che coniuga modernamente arcaismi ed etno-ecologia nella magica esaltazione della “montagna incantata” come luogo contrapposto allo spazio globale.
Aldo Bonomi

Noi che ci preoccupiamo di preservare le specie animali, affinché non scompaiano gli elefanti dall'Africa, i leoni, gli ippopotami dal Nilo, dobbiamo rallegrarci che il governo si preoccupi di accogliere degli esseri umani
Temistio, IV secolo d.C.

In una recente indagine sui valori dei giovani altoatesini e sudtirolesi (Ausserbrunner / Bonifaccio / Plank / Plasinger / Sallustio / Zambiasi, 2010) emerge che tra i principali problemi presenti in provincia di Bolzano la crescente urbanizzazione figura al terzo posto dopo alcolismo ed immigrazione. Questo è un problema segnalato anche da quella grande rassegna di studi sull’ambiente altoatesino che s’intitola “Alto Adige: un paesaggio al banco di prova” (Kreisel/Ruffini/Reeh/Pörtge, 2010). Leggiamo nel saggio introduttivo dei curatori dell’opera che nel corso della transizione da “povera regione di montagna” a “regione moderna e prospera”, qualcosa è andato storto: “durante l’ultimo decennio sono stati ripetutamente violati “tabù” fino ad ora resistenti, nel rapporto tra l’esigenza di uso turistico, insediativo o produttivo da un lato e la tutela del paesaggio, dall’altro”. In che maniera, in che misura? “La corsa continua verso la realizzazione di infrastrutture sempre più moderne e prestanti…si associa spesso alla perdita di valori paesaggistici e ad un appiattimento culturale”.
Il problema, sottolineano gli autori, è che “i principi della creazione e del mantenimento di un bel paesaggio e della conservazione della biodiversità non sono mai stati prioritari nello sfruttamento del territorio; da sempre ha prevalso la regola dello sfruttamento economico”. Si continua a costruire imperterriti e negli ultimi anni “il volume edificabile concesso sulle zone di verde agricolo ha superato quello concesso sulle zone residenziali”. Il che rende ormai improcrastinabile una seria revisione del modello di crescita adottato in Alto Adige. Conclusioni di notevole rilevanza in una provincia che si compiace delle sue bellezze naturali e del suo folklore per definizione ecosostenibile.
Si tratta di capire perché abbia prevalso la logica dello sfruttamento. Io credo che il primo indizio lo si possa rinvenire nelle due prefazioni a questo imponente volume, quella di Luis Durnwalder e quella di Michl Laimer, assessore all’urbanistica, ambiente ed energia, che forniscono utili in merito a come le autorità percepiscano la relazione tra società ed ambiente naturale, come del resto ricordato dagli stessi autori, quando precisano che “il paesaggio, il suo aspetto e la sua qualità sono anche espressione del modo in cui una società affronta e vive il concetto di patria”. 
Ho già evidenziato gli innumerevoli difetti della mentalità patriottica nell’opera precedente (Fait/Fattor, 2010) e questo è un tema che non intendo riesaminare in questa sede. Tuttavia, quando le cose non funzionano, è sempre necessario problematizzare ciò che si tende a dare per scontato, perché è assai probabile che alcun aspetti del senso comune non si configurino come buon senso, ma come dannoso preconcetto. È presumibilmente il patriottismo che fa dire a Durnwalder, in contrasto con i rilievi critici espressi dagli autori, che “oggi l’Alto Adige è una regione esemplare” e che “i fattori di successo del “modello Alto Adige” vanno ricercati nel suo sviluppo sostenibile e armonico”. Laimer esorta tutti a “cercare un rapporto sostenibile con il paesaggio”, una prassi che ha molto a che fare con la cultura, con il rispetto e, aggiunge con grande perspicacia, “con il modo in cui la società altoatesina affronta il concetto di appartenenza”. L’assessore prosegue poi in termini più che condivisibili: “dobbiamo riuscire a sviluppare la capacità di percepire e di apprezzare in modo più profondo il paesaggio, la sua storia e la sua estetica. Dobbiamo diventare consapevoli del valore del nostro paesaggio e dunque del nostro habitat”. Conclude infine: “in questo modo il paesaggio può anche contribuire a creare l’identità”.
Queste due prefazioni esplicitano due problemi. Il primo è la fallace certezza di aver operato al meglio, il secondo è il rapporto tra identità collettiva ed ambiente naturale. La tensione tra modernità e tradizione si può rintracciare anche nelle osservazioni conclusive di una commissione parlamentare svizzera del 1929 secondo cui “una Svizzera senza un popolo montanaro forte e sano, moralmente e fisicamente, non sarebbe più la Svizzera nel senso storico del termine”.
La pessima prova che ha dato di sé la Provincia di Bolzano nel mercimonio che ha visto il voto di fiducia al governo Berlusconi ripagato con la snazionalizzazione del parco dello Stelvio, spezzettato tra Trento, Bolzano e Lombardia. Questo il commento di Sergio Rizzo, sul Corriere della Sera ("Lo Stelvio, i Favori e lo Spezzatino", 23 dicembre 2010):

Soltanto uno sprovveduto potrebbe non cogliere la relazione fra questo grosso favore agli autonomisti e il grosso favore che i due deputati della Südtiroler Volkspartei Siegfried Brugger e Karl Zeller hanno fatto a Berlusconi contribuendo al salvataggio del governo con l’astensione al voto di fiducia del 14 dicembre. Ma la politica, in Italia, è diventata anche questo. Il problema è semmai che fatti del genere scandalizzano sempre meno. Anche quando diventa merce di uno scambio inconfessabile un parco naturale: l’ultima cosa che dovrebbe fare le spese delle beghe della politica.

Mauro Fattor, sull’Alto Adige (“Le manovre sul parco, 23 dicembre 2010), riepiloga i precedenti non particolarmente beneauguranti:

E così può accadere che qualcuno ti faccia un chilometro e mezzo di strada forestale camionabile dentro un parco naturale – come è accaduto al Parco dello Sciliar due anni fa – e che l’unica reazione ammessa da parte dell’Ufficio Parchi sia quella di dire: ohhhhh!!
Oppure può accadere, come accade al Parco del Monte Corno, che con il bilancio del parco si faccia la manutenzione ordinaria di strade private che per legge spetterebbe ai proprietari dei fondi. Piccoli piaceri, si intende. Un’operazione simpatia. Per inciso: i soggetti terzi in questione sono forestali e cacciatori, che dipendono direttamente da Durnwalder.
Scriveva Antonio Cederna che sarà la stupidità della burocrazia ad uccidere il parco nazionale dello Stelvio. Si sbagliava: ci ha pensato molto prima il cinismo della politica. Perché le aree protette, i parchi nazionali, sono beni pubblici, e in quanto pubblici – in una concezione distorta e blasfema della res publica – di nessuno. Per questo diventano facile merce di scambio.

E questo è proprio il punto. Se è res publica, non è reclamabile come proprietà dell’Heimat e del popolo. Ha una sua dignità inalienabile, una fruibilità universale che va garantita anche per le generazioni future. Al di là delle parole di circostanza, quest’idea fa fatica a prendere piede nelle società non “primitive” (che potrebbero rivelarsi più civili di tante altre società “moderne”). In genere, “qui da noi”, si tende a vedere la natura come un qualcosa di diverso, di altro, che può ed occasionalmente deve essere sottomesso. Questo è un tipo di mentalità che abbiamo sviluppato con l’agricoltura e che si è irrobustito con la diffusione del radicale dualismo gnostico-cartesiano tra ego e natura che ormai è diventata la nostra modalità standard di comportamento verso la natura. Utili riflessioni su questo tema possono essere trovati nel pensiero di Hans Jonas e in particolare nella sua disamina del modo in cui ci siamo estraniati dal mondo e dalla trascendenza, diventando integralmente alienati, suscettibili di depressione cronica, fuga dalla realtà e megalomania, a seconda dei casi.
Tra i popoli di cacciatori e raccoglitori vi era una genuina gratitudine nei confronti di Madre Natura e dell’animale che nutriva la comunità con la sua carne. Nessuno avrebbe mai immaginato di poter sbocconcellare, raschiare o bruciare il corpo della madre che lo nutre. La nostra hybris, la nostra pretesa di poter e dover trasformare questo pianeta affinché si adatti lui a noi e non noi a lui, nasce con l'agricoltura. Persino a livello mitologico si vede la differenza di atteggiamento nei confronti del cosmo e dei rapporti interpersonali con la transizione da un modello all'altro. Nella caccia e raccolta predomina ancora l'idea che siamo ospiti e che non dobbiamo abusare dell'ospitalità, con l'agricoltura trionfa l'idea che il pianeta è casa nostra e ne facciamo quel che ci pare. Sono due paradigmi antitetici e il secondo, spiace dirlo, è tagliato su misura per dei briganti.
Una diversa prospettiva ecologica è quella dell’interconnessione, dell’interdipendenza di tutta la vita organica e di tutta la coscienza che supera lo scisma tra materia e spirito, senza negarlo (panenteismo), e che trova tra i suoi forse più noti esponenti Teilhard de Chardin, Alfred North Whitehead e, credo di poter dire, Vito Mancuso. Infine c’è l’ecologismo profondo che non considera l’umano come una dimensione in alcun modo speciale rispetto al resto della natura (panteismo) ma, anzi, tende alla misantropia e a concepire gli esseri umani come dei parassiti. Al giorno d’oggi l’approccio dualista-riduzionista sta segnando il passo sia perché l’abbruttimento del paesaggio è un qualcosa che non può essere in alcun modo smentito, sia perché lo sfruttamento e spreco delle risorse è percepito come un tipo di condotta che non è più sostenibile e moralmente accettabile. L’approccio dell’ecologismo profondo è così radicale che troppo spesso i suoi esponenti non sanno nascondere un certo piacere nel contemplare i disastri naturali che umiliano la superbia umana.
Il più radicale tra tutti gli ecologisti estremi fu Adolf Hitler. Il seguito del Mein Kampf – il cosiddetto Zweites Buch, scritto nel 1928, rimasto inedito in seguito ad una cocente sconfitta elettorale, riscoperto nel dopoguerra e pubblicato solo nel 1961 – contiene anche un esame del valore della vita come potere immanente sia agli individui sia ai popoli. Hitler ne deduce alcune conclusioni: il valore assoluto del concetto di vita organica e della sua estetica; il principio che le stesse leggi che determinano la vita degli individui sono valide anche per i popoli e quindi l’esistenza di leggi della vita dei popoli (Lebensgesetze für die Völker); la conseguente inevitabilità della lotta per la vita (Lebenskampf); la storia come progressione dei popoli nella loro lotta per la sopravvivenza e per lo spazio vitale (Lebensraum). È in questo magma dottrinale che affonda le radici l’ecologismo nazista (e neonazista). Il Terzo Reich dimostrò una sensibilità verso gli animali e la natura inversamente proporzionale a quella dimostrata verso gli esseri umani. Le leggi sulla sperimentazione sugli animali e sul loro trasporto e la normativa per la tutela delle foreste e della biodiversità erano all’avanguardia nel mondo, tanto che alcune di esse rimangono in vigore ancora oggi (Pois, 1986; Sax, 2000). Forse l’incapacità di amare gli esseri umani potrebbe in parte spiegare la sproporzionata passione per gli animali – sproporzionata in relazione alla loro misantropia: amare gli animali non è mai un male, ovviamente – e la glorificazione nazista delle leggi di natura. Il nazismo formulò una filosofia del vivente (Lebensphilosophie), non dell’umano. Non serviva alcuna antropologia, perché la specie umana era sussunta nello schema del vivente, non v’era nulla di riconoscibilmente speciale negli esseri umani nel panteismo nazista. In un discorso tenuto a Norimberga nel 1938, Hitler, comunicò al popolo l’essenza di questo suo panteismo: “Noi veneriamo esclusivamente la cura di ciò che è naturale, e di conseguenza, in quanto naturale, voluto da Dio. La nostra umiltà si afferma nella sottomissione incondizionata alle leggi divine dell’esistenza per come noi uomini riusciamo a comprenderle”.
I tempi sono cambiati ma rimane, sotto traccia, in tutti i movimenti di rivitalizzazione etnica, una mistica della naturale e salvifica autenticità e purezza dell’Alpe (o della foresta, o della prateria, o dell’ambiente marino) come via di fuga dalla metropoli corruttrice e tentacolare, dalle sue manipolazioni, contaminazioni ed imbastardimenti. Nello specchio dell’Alpe il cittadino vede il riflesso idealizzato e nostalgico di un’identità più sincera e genuina. In questo modo la natura viene nazionalizzata, la nazione si naturalizza e la Naturschutz finisce per coincidere con la Heimatschutz. Quand’era in vita, le performance alpinistiche dell’imprenditore Haider evidenziavano il nesso tra la sacralità della montagna, l’intento di generare un’adesione essenzialmente emotiva al movimentismo anti-istituzionale e l’idealizzazione nazionalista della sfida esistenziale dell’individuo, che è rappresentante del suo popolo sulle pareti rocciose come sui mercati finanziari. In questo senso, esistevano delle evidenti analogie simboliche ed ideologiche tra Haider e due intellettuali filo-nazisti come Julius Evola e Marc Augier (Saint-Loup), entrambi provetti alpinisti, sciatori e promotori di una mistica naturalista e neo-pagana rivolta ai giovani, potenziali fautori della palingenesi europea. Augier, oltre ad essere attivo nella promozione della rete di ostelli della gioventù francese fu anche un teorico dell’Europa delle patrie carnali (patries charnelles) in cui veniva enfatizzata la componente biologica dell’etnicità.
Il connubio di ruralismo, tradizione, ansia etnica e modernismo è puramente strumentale. Esso produce un’identità collettiva fittizia utile a superare, provvisoriamente, il disincanto della modernità, grazie alla reintroduzione del sacro, del mistico e del trascendente – vale a dire del sublime – in una società che ha in parte ripudiato la presenza del divino. Il modello etnoambientalista “Heimat und Umwelt” non è un ritorno al passato ma un’alternativa all’idea piuttosto caricaturale di una modernità appiattente incarnata dallo spauracchio McWorld. In questa prospettiva l’identità del singolo è inscindibile dalla valorizzazione delle risorse naturali e culturali della sua piccola patria. Il paesaggio, i riti, il folklore, certe convenzioni ed intimità offrono un saldo ancoraggio per chi non è aduso ai continui riorientamenti identitari imposti dalle metropoli multietniche.
Gli eco-etnopopulisti dimostrano grande abilità nello sfruttare quest’aspetto dell’immaginario popolare, puntando su una formula in cui ogni offesa o aggressione alla natura diviene un’offesa alla cultura ed all’identità etnica ed individuale, e vice versa. L’Heimat, come proiezione a livello regionale dell’istituzione familiare e del confortevole ambiente domestico (Heim) diventa un bastione di solidarietà per una società gelosamente chiusa in se stessa, uno scudo che protegge aspetti della tradizione che non si vogliono annacquati dalla mondializzazione e dal cosiddetto turbocapitalismo.

Resta comunque il fatto che ciascuno di noi è un ospite di questo pianeta, un ospite da un altro mondo, ed è tenuto a far sì che chi verrà dopo possa fruire della medesima ospitalità, o magari di un livello anche superiore. Dunque si deve pur trovare la maniera di amare l’ambiente senza volerlo possedere, senza considerarlo “cosa nostra”, senza piegarlo ai nostri desideri per ricavarne maggior piacere.
In questo capitolo la mia guida sarà Ralph Waldo Emerson, il nume tutelare della letteratura americana, l’intelletto che ha meglio saputo distillato il sogno di un’umanità migliore in un mondo migliore, insomma il sogno americano delle origini. Nel suo manifesto del trascendentalismo, Emerson reputava che l’approccio utilitaristico alla natura fosse deleterio non solo per la natura ma anche per la vita della nostra mente e molti escursionisti o valligiani capiranno molto bene il significato delle sue parole (Nature 1836-1844/2010):

Vi è qui come una sacralità che mette in imbarazzo le nostre religioni e una verità che potrebbe discreditare i nostri più acclamati eroi. Qui riscopriamo come la natura sia la realtà che fa rimpicciolire, al confronto, ogni altra realtà, e come essa giudichi simile a un dio ogni uomo che venga a lei. Siamo sgusciati via dalle nostre chiuse, affollate dimore, nella notte e al mattino, ed eccoci ad ammirare da quali maestose bellezze siamo quotidianamente circondati e fasciati. Come vorremmo sfuggire alle tante barriere che ce le rendono intanto, almeno in parte, inoperanti, come vorremmo sfuggire a sofismi e riserve mentali, come vorremmo compenetrarci nella natura! La temperata luce dei boschi è come un perpetuo mattino, è stimolante, eroica. S'insinuano dentro di noi le antiche magie di questi luoghi. I fusti dei pini, degli abeti, delle querce brillano come ferro davanti all'occhio infiammato. E i muti alberi cominciano a persuaderci che meglio sarebbe vivere con loro e abbandonare questa nostra vita fatta di solenni futilità. Qui non vi è storia, non vi è chiesa o stato che si sovrappongano, come un'interpolazione, al cielo divino e al grande anno immortale. […]. Le città non concedono spazio sufficiente ai sensi umani. E sia di giorno 'che di notte ci tocca andar fuori a nutrirci gli occhi di orizzonti e a richiedere la nostra parte di spazio, così come abbiamo bisogno dell'acqua per lavarci. […]mi distacco dalle beghe e dalle personalità del luogo: sì, e dall'intero mondo di piccoli centri e di personalità, e mi trasferisco in un delicato reame di tramonti e di pleniluni, troppo splendido, forse, per quell'essere contaminato che è l'uomo, e perché vi si possa accedere senza una qualche forma di noviziato e di accettazione. […]. Quelli che lamentano come morbosa la separazione fra la bellezza della natura e le cose che devono esser fatte, devono considerare che questo nostro andare a caccia del pittoresco è inseparabile dalla nostra protesta nei riguardi delle falsità sociali. L'uomo è caduto; la natura è sempre in piedi e fa da termometro differenziale rivelando la presenza o l'assenza di sentimento divino nell'uomo. Ed è per colpa della nostra insipienza e del nostro egoismo che ci rivolgiamo alla natura; ma quando saremo sulla via della guarigione, sarà la natura a rivolgersi a noi. Guardiamo con un senso di compunzione il ruscello che spumeggia; ma se la nostra vita scorresse con la sua giusta carica di energia, sarebbe il ruscello a sentire vergogna.

E qui c’è un passaggio importante, nell’economia del discorso che ho impostato in questo capitolo

Questa ingegnosità con cui è fatto il mondo si travasa anche nella mente e nel carattere delle persone. Nessuno è perfettamente bilanciato; ognuno ha una vena di insania nella sua costituzione, una leggera pressione del sangue alla testa per far si che egli resti saldamente legato a un qualche particolare punto che la natura abbia preso a cuore.

Emerson sta provando ad emanciparci dall’incubo di un universo morto ed indifferente a noi ed a tutto il resto e, contemporaneamente, dalla credenza veterotestamentaria in un dio vanaglorioso, capriccioso ed irascibile. Ecco un altro significativo passo del “manifesto”:

Attraversando un terreno brullo all’imbrunire, tra pozzanghere di neve, sotto un cielo nuvoloso e senza alcun particolare motivo di ottimismo nei miei pensieri, ho goduto di un momento di perfetta euforia. Sono così contento da averne quasi paura. Anche nel bosco l’uomo si libera dei propri anni come un serpente della sua pelle e, a qualunque età, è sempre un bambino. Nei boschi è l’eterna giovinezza. All’interno di queste piantagioni di Dio regnano decoro e sacralità, qui una festa perenne è allestita, e l’ospite non vede come potrà mai stancarsene, passassero anche mille anni. Nei boschi torniamo alla ragione e alla fede. Lì sento che niente può accadere alla mia vita: nessuna disgrazia o calamità (purché mi si lascino gli occhi) che la natura non possa sanare. In piedi sulla nuda terra – con la testa inondata dall’aria gioiosa e sollevata verso lo spazio infinito – ogni egoismo meschino svanisce. Divento una pupilla trasparente; non sono niente, vedo tutto; le correnti dell’Essere Universale mi attraversano; sono una parte o una particella di Dio. Il nome dell’amico più caro suona allora estraneo e accidentale: essere fratelli o semplici conoscenti, padroni o servi, è una quisquiglia e un impiccio. Sono l’amante della bellezza incontenibile e immortale. Nella natura selvaggia trovo qualcosa di più caro e congeniale che non nelle strade o nei villaggi. Nel paesaggio placido, e soprattutto nella lontana linea dell’orizzonte, l’uomo scorge qualcosa di altrettanto bello della sua stessa natura. II piacere più grande che i campi e i boschi procurano è l’indizio di una relazione nascosta tra l’uomo e il regno vegetale. Non sono solo e irriconosciuto. Esso mi fa cenni e io ricambio. L’ondeggiare dei rami nella tempesta è per me nuovo e antico a un tempo. Mi coglie di sorpresa ma non mi è sconosciuto. Il suo effetto è simile a quello di un pensiero più elevato o di un’emozione migliore che mi investono quando credevo di pensare in modo giusto e di agire rettamente.

Pare che i suoi sensi siano più affinati della media. Forse li usa meglio, forse è semplicemente più attento. È possibile che chi è incline a percorrere questo “sentiero” sia coinvolto in un processo di progressiva identificazione con una sfera sempre più vasta del mondo, proprio a partire dalla natura. La mistica naturalista dei trascendentalisti non è animista, è trascendente, appunto. Emerson dichiara che “ogni fatto naturale simboleggia un fatto spirituale”. La Natura è, in ultimo, Spirito. Ricordo una frase di Dale Cooper, in Twin Peaks: “la vita ha un senso qui, ogni vita. Ci sono valori che credevo scomparsi, ma mi sbagliavo, li ho ritrovati a Twin Peaks”. In questa serie un merlo si chiama Waldo, forse un omaggio a R.W. Emerson. Ben diversa, dualistica, è la comprensione delle forze naturali dell’Immanuel Kant della “Critica del giudizio”, che pure mostra qualche traccia di una possibile, remota convergenza:

Le rocce che sporgono in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo fra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice, e gli uragani che si lasciano dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta di un gran fiume, riducono ad una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente per quanto più è spaventevole, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le chiamiamo volentieri sublimi, perché esse elevano le forze dell’anima al di sopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere interamente diversa, la quale ci dà coraggio di misurarci con l'apparente onnipotenza della natura.

Per i trascendentalisti il bello e il sublime eccedono l’ordinarietà dei nostri pensieri e delle nostre emozioni e ci infondono un’immensa gioia e anelito verso l’alto e verso l’interiorità. Ciò che ascende, converge, come ciò che esplora le profondità dell’anima. Il senso della meraviglia, del sentirsi infinitamente minuscoli ed infinitamente vasti, proiettati verso un interesse morale superiore, che è poi quello della coscienza. Nessuna persona potrebbe commettere un crimine trovandosi in una tale condizione dell’anima, che purtroppo per noi è solamente passeggera.
I trascendentalisti dei nostri tempi abitano molto più vicino. Uno di loro è il celebre Mauro Corona (2005, p. 271), non certo per caso un ammiratore di un altro grande trascendentalista, Walt Whitman:

Mi escono battute sarcastiche quando leggo o sento definire la montagna assassina. La montagna non è assassina, se ne sta lì e basta. Siamo noi i killer di noi stessi, che non sappiamo vivere, che usiamo il profumo per l’uomo che non deve chiedere mai, che abbiamo dimenticato la carità, la riconoscenza, il rispetto, che distruggiamo la natura. La vita è un segno di matita, curvo e sottile, che finisce ad un certo punto. Per molti è lungo, per altri corto, per altri non parte nemmeno. La gomma del tempo verrà poi a cancellare quel segno. Di noi non resterà nemmeno il ricordo. È giusto così. E allora perché sgomitare tanto?…Vivere è come scolpire, occorre togliere, tirare via il di più, per vedere dentro. La montagna mi ha insegnato anche questo.

Ne “Il volo della martora” (1997, p. 62), uno dei suoi pensieri più belli:

Le voci della primavera sono il diluente che impedisce alle scorie dei fallimenti, delle delusioni, del pessimismo di occludere il minuscolo passaggio verso quel magico luogo, verso quella terra lontana e ancora pulita, sempre così difficile da raggiungere, dove trovano rifugio i sentimenti buoni quando noi li rincorriamo per ucciderli.

Un altro è il meno noto Mario Martinelli (2007, p. 68), trentino della Vallarsa:

E Luino distingueva chiaramente ora, nell’opaca tenebra, come l’equilibrio con la natura fosse la cosa più importante per assaporare completamente il ricco e impagabile cammino dell’uomo. La solitudine siderale poteva raggiungere momenti d’intensa spiritualità che mettevano i brividi sulla pelle e, subito dopo, la certezza di essere uniti a tutti gli elementi del creato conferiva un’euforia che abbisognava dell’intero universo per espandersi.

I trascendentalisti, vecchi e nuovi, ci stanno dicendo che una buona parte della nostra aggressività non è un tratto costitutivo della nostra natura, è il risultato di una concatenazioni di scelte sbagliate, a loro volta causate dalla nostra immaturità. L’esito è stato una dipendenza psicologica autodistruttiva, il bisogno di consumare letteralmente il nostro prossimo, l’altro da noi, per espandere il nostro ego, personale e collettivo (patria, etnica, civiltà, culto, ecc.), che necessita di confini e barriere che mantengano ben distinti il mio dal tuo, il soggetto dall’oggetto. Così siamo diventati materialisti, avidi, competitivi, violenti, razzisti, sessisti, omofobi, insicuri, narcisisti, ossessivi, anempatici (freddi, disabituati alla compassione), moralmente intorpiditi (indifferenti, relativisti, nichilisti, egotisti) ed in ultimo autolesionistici. E il punto non è che dobbiamo cambiare per ragioni morali, non c’è un imperativo etico che ci deve costringere a pensare e vivere diversamente; la cosa è molto più semplice: i trascendentalisti ci offrono uno squarcio nel tipo di esperienza di vita che sprechiamo, di cui ci priviamo, ci rivelano cosa perdiamo quando viviamo un’esistenza indurita intorno ad un ego pietrificato, ad identità sociali inflessibili, intransigenti e soprattutto monistiche a pratiche sociali di sfruttamento, strumentalizzazione e manipolazione che ormai diamo per scontate, che non consideriamo nemmeno più problematiche.
Dobbiamo accettare, una buona volta, che non siamo onnipotenti, che non siamo qui per soggiogare l’universo alla nostra volontà di potenza, che la natura è indifferente alle nostre pretese ad ai significati che le attribuiamo. La radice di tutti i nostri mali, della convergenza di crisi in quest'epoca oscura, è questa nostra superbia, la superbia del moltiplichiamoci, popoliamo il pianeta (come se non fosse già popolato da altre specie) e trasformiamo l'universo in accordo con le nostre preferenze. L'intera nostra civiltà è fondata su questo assurdo paradigma che ci sta portando alla rovina. Dobbiamo riscoprire e valorizzare l’umiltà e il rispetto per ciò che è altro da noi.
Lo illustra magnificamente David Foster Wallace, nel suo breve scritto “Questa è l’acqua” (2009):

Ogni cosa, nella mia esperienza immediata, conferma la mia profonda convinzione che sono io il centro assoluto dell’universo, la persona più reale, vivida e importante che esista. Raramente parliamo di questa sorta di egocentrismo naturale, di base, perché ispira una forte repulsione sociale, ma in fondo lo stesso vale per ognuno di noi. È la nostra configurazione standard, quella che ci ritroviamo installata nei nostri circuiti a partire dalla nascita. Pensateci: nessuna delle esperienze che avete vissuto era incentrata su qualcuno che non foste voi stessi. Il mondo di cui fate l’esperienza è proprio di fronte a voi, o dietro di voi, o alla vostra sinistra, o alla vostra destra, sul vostro teleschermo, sul vostro monitor, o quel che è. I pensieri e i sentimenti degli altri vi devono essere comunicati in qualche modo, ma i vostri sono così immediati, urgenti, reali - ci siamo capiti…Non è una questione di virtù - è una questione di scegliere se impegnarmi a modificare o a liberarmi dalla mia conformazione standard, naturale, impiantata nei circuiti, che consiste nell’essere profondamente e letteralmente incentrato su di me, nell’osservare ed interpretare ogni cosa attraverso questa lente del sé. […]. Se imparate davvero come pensare, a cosa prestare attenzione, scoprirete che ci sono altre opzioni. Avrete il potere di vivere una situazione affollata, rumorosa, lenta, da inferno del consumatore, non soltanto come dotata di significato, ma anche sacra, animata dalla stessa forza che accende le stelle – compassione, amore, l’unità profonda di tutte le cose. […]. Nelle trincee quotidiane della vita adulta, l’ateismo non esiste. È impossibile non venerare qualcosa. Tutti venerano. L’unica scelta che possiamo fare è cosa venerare. E un’ottima ragione per scegliere di venerare qualche specie di divinità o di ente spirituale - Gesù Cristo o Allah, Jahvè o la dea-madre di Wicca, le Quattro Nobili Verità o un qualche insieme infrangibile di principi etici – è che praticamente qualunque altra cosa voi veneriate finisce per mangiarvi vivi. Se venerate i soldi e gli oggetti - se è in essi che riponete il vero significato della vita -, non ne avrete mai abbastanza. Non sentirete mai di averne abbastanza. Questa è la verità. Venerate il vostro stesso corpo, la vostra bellezza e il vostro fascino, e vi sentirete sempre brutti, e quando il tempo e l’età inizieranno a farsi notare, morirete un milione di volte prima che essi vi abbandonino davvero. Venerate il potere - vi sentirete deboli e impauriti, e avrete bisogno di un potere sempre maggiore sugli altri per tenere a distanza la paura. Venerate la vostra intelligenza, la vostra brillantezza - finirete col sentirvi stupidi, degli impostori, sempre sul punto di essere smascherati.. La cosa insidiosa di queste forme di culto non è il fatto che siano malvagie o peccaminose; è che sono inconsapevoli. Sono configurazioni standard. Sono quel tipo di culto nel quale scivolate lentamente, giorno dopo giorno, diventando sempre più selettivi riguardo a quello che osservate e al modo in cui misurate il valore, senza mai essere pienamente consapevoli che lo state facendo. E il mondo non vi impedirà di operare secondo la vostra configurazione standard, perché il mondo degli uomini e del denaro e del potere procede piuttosto gradevolmente con il carburante della paura e del disprezzo e della frustrazione e della bramosia e del culto di sé. […]. La libertà che davvero conta richiede attenzione, e consapevolezza, e disciplina, e sforzo, e la capacità di interessarsi davvero alle altre persone e di sacrificarsi per loro, continuamente, ogni giorno, in una moltitudine di piccoli e poco attraenti modi. Questa è la vera libertà. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la configurazione standard, la “corsa di topi” - la costante e divorante sensazione di aver posseduto e perduto qualcosa di infinito.

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