domenica 27 novembre 2011

Si può evitare una Terza Guerra Civile Europea (studiando il caso jugoslavo)




La guerricciola slovena – che dà il via nel 1991 alla disintegrazione dei Balcani – è un capolavoro di astuzia strategica e di messa in scena, e l’esperienza fatta a Timosoara mi aiuta a prenderne atto con relativa rapidità. Lo strappo – come si vedrà più tardi – avviene grazie a una tacita unità d’intenti con la Serbia. Si consuma all’insaputa della Croazia, e soprattutto dell’esercito federale, che cade nel tranello della provocazione. La Slovenia non interessa a Milošević; dietro alle sue dichiarazioni roboanti sull’integrità dei confini, egli già lavora per ritagliare dal paese la fetta più larga possibile di Grande Serbia, dunque il separatismo sloveno gli è utile a mettere in mora il processo e a schivarne la responsabilità. Anche per i dirigenti di Lubiana è un abile gioco delle tre carte. Essi hanno costruito la separazione pompando la rabbia popolare dei ‘mitteleuropei’ contro i ‘bizantini’ serbi, ma è proprio con i bizantini che essi si accordano per spaccare la Federazione.
Paolo Rumiz, “Maschere per un massacro”, 2000, p. 58.

Incremento del costo dei combustibili fossili, eccessivo indebitamento, forti disparità nord-sud, regionalismi separatisti, cultura democratica deficitaria, burocrazia inefficiente e corrotta, malavita organizzata, speculazioni internazionali, trame geopolitiche globali: queste sono state le cause principali della morte della Jugoslavia. 
Succederà anche all’Unione Europea, in caso di crollo dell’eurozona, come hanno vaticinato Merkel e Sarkozy?

Occorre prima fare piazza pulita della tenace credenza che siano le lealtà etniche a causare le guerre civili. I miti etnici e religiosi sono ingredienti fondamentali di quasi ogni guerra civile, ma si attivano solo se e quando conviene a quelli che chiamo gli “imprenditori dell’etnico” – politici, intellettuali, industriali e finanzieri che hanno interesse a rinfocolare dissidi per dividere la popolazione. Un semplice, incontestabile dato di fatto è sufficiente a confutare una volta per tutte il mito dell’incontenibile forza dell’odio interetnico. Il censimento ruandese del 1991 stimava che la popolazione tutsi ammontasse a 600mila cittadini e almeno 300mila Tutsi sono sopravvissuti al loro genocidio. Se il conto delle vittime è affidabile – tra il mezzo milione ed il milione –, allora il numero di Hutu uccisi da altri Hutu è paragonabile se non superiore a quello dei Tutsi massacrati dagli Hutu. Il che significa che, ancora una volta, le semplificazioni binomiali (bianco/nero, buono/cattivo) non rendono giustizia alla complessità degli eventi umani. 

Per capire cosa sia successo in Jugoslavia si deve anche tener conto della trama mafiosa che la avvolgeva in un reticolo di poderosi traffici di esseri umani, di armi, di droga tra Kosovo, Croazia, Germania e Italia, che hanno coinvolto alcuni tra i politici croati ed austriaci più in vista. Per maggiori dettagli, rimando all’articolo di Vito Lops, sul Sole 24 Ore del 10 settembre 2010, dal titolo “Il giallo della banca Hypo Alpe-Adria. Tra i contatti con la malavita e quei finanziamenti ad Haider”, alle fondamentali inchieste pubblicate online da “EaST Journal” ed agli studi rigorosissimi del politologo Francesco Strazzari, in particolare l’inestimabile “Notte balcanica : guerre, crimine, stati falliti alle soglie d'Europa” (2008), che hanno già tratteggiato i contorni della vicenda, in cui criminalità e sovranità si intrecciano inestricabilmente e trasversalmente rispetto ai gruppi etnici.
I Serbi, Milosevic in primis, restano comunque i principali responsabili di ciò che è avvenuto. Fino al 1958 il partito comunista era intento a creare una “coscienza jugoslava”. Poi, negli anni Sessanta, questa politica fu rovesciata e non solo non ci si curò più di fare riferimento alla nazionalità jugoslava, ma addirittura si introdusse l’obbligo per i cittadini di dichiarare la loro affiliazione etnica. Questo fu fatto perché molti Serbi stavano tentando di impadronirsi clandestinamente dei centri di potere dell’intera nazione – l’esercito e l’amministrazione pubblica –, approfittando del fatto che l’etnia non contava. Perciò bisognava in qualche modo identificarli. Il nazionalismo etnico divenne la principale forma di opposizione al comunismo, ma soprattutto ad un colpo di stato serbo dissimulato. Non si trattava di un atavismo, la natura del conflitto non era etnica. C’era invece un uso mafioso dei legami clanici per conquistare fette sempre più grandi di potere, prestigio, influenza e benessere. Tutto questo produsse un processo scismogenetico: le varie fazioni assunsero posizioni gradualmente sempre più estreme, in una crescente polarizzazione. I mass media, invece di mitigare questi processi, irrobustirono la tendenza a tessere interazioni simboliche all’insegna della contrapposizione scismatica. Ogni questione sociale andava letta in termini etnici, cosicché le simpatie e preferenze di ciascuno finivano per andare alla “sua” gente, indipendentemente dalla ragionevolezza delle istanze sollevate dall’altra parte (Denich, 2000).
I fatti, perciò, danno ragione al sociologo e politologo Marco Deriu, quando sostiene che “Il conflitto etnico non è la realtà della guerra, ma piuttosto il nome della rappresentazione pregiudiziale con cui gli osservatori sia locali che occidentali si dispongono a fronte di un conflitto del quale capiscono ben poco e da cui vogliono a tutti i costi sentirsi distanti” (Deriu, 2005, p.105). E anche a Paolo Rumiz: “Spiegare la guerra con l’odio tribale è come spiegare un incendio doloso col grado di infiammabilità del legno da costruzione, e non col fiammifero” (Rumiz, 2000, p.29). Quando invece quella tribale è una mera mascherata che serve innanzitutto a far credere “all’irrazionalità di uno scontro i cui scopi (economici) e i cui metodi (di manipolazione) sono invece assolutamente razionali, e dove le responsabilità di vertice sono del tutto trasparenti; in secondo luogo, fornisce la base teorica all’impossibilità della convivenza e dunque all’inevitabilità della pulizia etnica; in terzo luogo, soddisfa in pieno il bisogno di spiegazioni banali da parte dell’opinione pubblica internazionale” (Rumiz, ibid., p. 76). 
Guido Rampoldi (“L'Occidente allora trovò la sua missione”, Repubblica, 11 luglio 2005) ha parlato di ribaltamento della verità ed ha denunciato due motivi propagandistici convergenti: quello che associava il nazionalismo serbo al nazismo e quello che si agganciava alla teoria fatalistica dello scontro di civiltà di Samuel Huntington, che leggeva ogni conflitto come un fenomeno naturale o un’ineluttabilità storica e perciò incontrollabile: “Nella sua essenza questa era la medesima rappresentazione fabbricata dai regimi di Croazia e Serbia per convincere l'Occidente ad assecondare la spartizione della Bosnia: la guerra doveva risultare uno scontro 'spontaneo' tra popolazioni portatrici di 'civiltà' inconciliabili; e la 'civiltà' dei musulmani doveva avere caratteristiche aggressive (come è anche nell'Huntington più recente). […] È la fabbrica d'una vulgata in cui "civiltà" ha la spiacevole tendenza a funzionare come un'altra pseudocategoria, "razza", cioè a spalmarsi in ogni individuo, quale che siano le sue idee, come si trattasse d'un patrimonio genetico”.
Queste impressioni sono state confermate da un progetto di ricerca internazionale che ha coinvolto storici e scienziati sociali e che aveva come obiettivo quello di scrivere una storia il più possibile imparziale del conflitto jugoslavo (MacDonald et al., 2009). Lo studio internazionale riporta che in un sondaggio del 2003, a poco più di un decennio dalla fine delle pulizie etniche, tra il 21% ed il 25% di Serbi, Croati e Musulmani Bosniaci non avrebbero avuto alcun problema ad accogliere in famiglia un genero o una nuora dell’altro gruppo etnico, indipendentemente dal giudizio della propria comunità. Un valore ai miei occhi sbalorditivo.
Dunque perché l’odio assassino? Gli studiosi elencano una serie di ragioni: la crisi economica, l’autoritarismo e clientelismo diffuso, dalla famiglia allo stato, la manipolazione dell’opinione pubblica da parte di politici che cercavano lo scontro, i mezzi di informazione che battevano il tasto sull’atavicità ed inevitabilità dei conflitti interetnici, perché controllati da lobbies governative ed industriali che pensavano di poter avvantaggiarsi da uno scontro generalizzato. La guerra fu fabbricata anche a partire dalle acredini residue risalenti alla seconda guerra mondiale che lo stato ignorò, come se non esistessero, invece di affrontarle e creare una vera riconciliazione. Questi esperti sono concordi nel respingere la logica circolare per cui la guerra era inevitabile per il semplice fatto che ha avuto luogo. Obiettano, come Rumiz, che la debolezza con cui ci si oppose alla guerra fu paradossalmente il risultato dell’impreparazione della popolazione ad un tale sviluppo estremo. La gente non se l’aspettava e non si era attivata per evitarla. Invece politici, produttori d’armi, intellettuali, giornalisti e organizzazioni criminali avevano investito molto nell’innescamento di una spirale di distruzione e riuscirono a convincere ciascuno jugoslavo che erano stati gli altri a volere la guerra, non “noi”.  Nonostante questo moltissimi jugoslavi aiutarono i propri “nemici etnici”. 

Con ciò non si vuol dire che la Jugoslavia fosse un’utopia plurale, Ma non era nemmeno una terra di rancori e faide insanabili dove l’unità era stata imposta da fuori. C’erano separazione e convivenza, tolleranza e pregiudizio: come in Alto Adige, come in Italia, come in ogni altro luogo. Non era una società tribale, ma fu tribalizzata e si lasciò tribalizzare. Un paesano serbo aveva molte più cose in comune con il suo compaesano musulmano che con un serbo di Belgrado, sia per quel che riguarda il dialetto, sia per quel che concerne lo stile di vita; ma il conflitto rese saliente il parametro religioso e quindi la barriera separò categorie religiose, e non economiche, sociali e di ideologia politica. Vi erano relazioni amichevoli tra gruppi, ma diverse pratiche sociali li separavano, specialmente al di fuori degli ambienti urbani, dove i matrimoni misti erano rari e le amicizie erano monoetniche, così come lo erano i colleghi di lavoro. I matrimoni misti non erano comuni non per una questione di xenofobia ma perché creano complicazioni di adattamento a tradizioni diverse che molte persone preferiscono evitare. Era più facile frequentare e coniugarsi a persone che condividevano le medesime pratiche e che erano già inserite nel medesimo reticolo di obblighi reciproci dei propri genitori. Insomma, la sfera pubblica era condivisa ma quella dell’intimità era separata (Bringa, 1995). La Bosnia rurale era una società plurale, nell’accezione di Furnivall (1948): “Essa è, nel suo senso più stretto, una mescolanza, poiché essi si mescolano, ma non si combinano. Ciascun gruppo ha la sua propria religione, la sua cultura e la sua lingua, le sue idee e costumi. Come individui si incontrano, ma solo al mercato, per comprare e vendere. C’è una società plurale, con differenti sezioni della comunità che vivono fianco a fianco, ma separatamente, all’interno della stessa unità politica”. Un po’ come l’Unione Europea, in effetti. Questa separazione spiega perché, una volta che lo stato jugoslavo si sfasciò ed iniziarono le violenze, fu relativamente facile per i fomentatori d’odio rendere così determinanti e disumani i legami etnici, trasformandoli in legami clanici, cioè in una grande famiglia fittizia in cui ogni parente è tenuto ad aiutare e sacrificarsi per gli altri parenti. Un familismo su scala gigantesca reso possibile da un’accorta e scellerata manipolazione simbolica. Le persone non possono scegliere i loro familiari e, allo stesso modo, non fu più possibile scegliere con chi stare: o con noi o contro di noi. Fu la fine del volontarismo e l’inizio del sanguinario dominio del fatalismo. Non importava più ciò che uno sentiva dentro, importava la sua collocazione nell’universo simbolico serbo, croato e musulmano. Ognuno era prigioniero, volente o nolente, nella sua gabbia etnica e poteva solo cercare di allargarla a spese delle gabbie altrui
Nelle città il problema dell’etnocentrismo era molto meno sentito ed i matrimoni misti erano molto più comuni. Le statistiche sui matrimoni misti indicano che in Jugoslavia, fino al 1981, sei milioni di cittadini si erano imparentati attraverso un matrimonio misto, su una popolazione complessiva di poco più di 22 milioni di abitanti. L’integrazione sociale era dunque un fatto, non un’impossibilità (Petrović, 2000). Infatti le città multietniche bosniache resistettero alla propaganda e respinsero l’esortazione a separare le comunità miste. Per questo i Serbi bosniaci furono costretti a tagliare le linee telefoniche tra quartieri etnicamente differenziati. Tagliando le comunicazioni tra le persone si ristabiliscono i confini che la gente ignorava. L’assenza di informazioni non consentiva di farsi un’idea realistica di ciò che stava accadendo e si era più facile preda della propaganda (Ramet, 2005).
Purtroppo la psiche umana è conformata in modo tale che una diversa affiliazione – una distinzione ed un senso di missione – è sufficiente per innescare un processo scismogenetico, ossia la formazione di una frattura. Ma ancora negli anni Ottanta per molti era impossibile immaginare una tragedia del genere. Solo a partire dal 1987 si cominciò a prestare attenzione a quelle Cassandre che avvertivano che c’erano tutti i presupposti per una guerra civile, se le autorità non avessero corretto la rotta (Ramet, 2008). Gli stessi etnografi che lavoravano sul posto, lontano dai centri urbani dove lo tsunami stava montando, non si erano dati pensiero di quel che sarebbe potuto accadere ed effettivamente accadde di lì a pochi anni. C’era sì l’idea di una possibile separazione, ma generalmente non si temeva una guerra civile e certamente non un evento di tale ferocia. In fondo i popoli bosniaci non si erano assaliti dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, e anche lì c’era stato bisogno dell’intervento nazifascista per scatenare l’inferno. Se l’odio fosse davvero stato una costante, un elemento intrinseco ai rapporti tra le genti jugoslave, allora si sarebbe arrivati ad una separazione netta, in aree etnicamente pure, già da secoli. Se la coesistenza fosse stata davvero impossibile e le relazioni interetniche fossero state realmente troncate come si sostiene ora, perché comunità differenti avrebbero continuato a convivere e risiedere in territori potenzialmente ostili, come hanno fatto? Paolo Rumiz, infatti, parla di incredulità della gente, ignoranza, sorpresa: “NON ESISTE PROVA MIGLIORE FORSE CHE LA BOSNIA NON È STATA DISTRUTTA DALL’ODIO, MA DA UNA DIFFUSA IGNORANZA DELL’ODIO” (Rumiz, 2000, p. 7).
I musulmani pensavano che solo i forestieri (ljudi sa strane) avrebbero creato incidenti. Ma quando queste forze esterne si presentarono alle loro porte, si stupirono nello scoprire che alcuni dei loro vicini si univano ad esse nell’eccidio dei musulmani, nel saccheggio e nella distruzione delle loro case (Bringa, 1995). Questa inconsapevolezza è da attribuire alla distanza dagli epicentri del fenomeno scismogenetico ed alla complessità della convergenza di fattori politici, economici, istituzionali ed ideologici tali da produrre una “tempesta perfetta” che compromise gli equilibri attivando certi meccanismi di progressiva contrapposizione in tutta l’area, anche laddove non c’erano stati dissidi diversi da quelli che s’incontrano in ogni comunità umana. Quel che si può escludere recisamente è che sia colpa di anonimi fattori storici o biologici. Ci furono persone in posizione di autorità che fecero tutto quanto era in loro potere perché accadesse quel che poi successe. Narcisismo ed orgoglio ferito, problemi di autostima, la ricerca spasmodica di un leader carismatico e messianico che conducesse il gregge, fecero il resto. A ciò si aggiunse la convinzione serba, alimentata dal regime, di essere tra i pochi guardiani rimasti dei valori del cuore e dello spirito e contro l’americanizzazione del pianeta (Ramet, 2005).
La pulizia etnica servì prima di tutto a creare le contrapposizioni, non ne fu la conseguenza. Poiché, essenzialmente, c’era un solo linguaggio, serbi musulmani e croati cominciarono a distorcere le loro lingue per andare incontro al mito della separazione. I musulmani introdussero termini arabi al posto di quelli serbi, i croati cercarono di inventarsi un croato puro ed autentico con picchi farseschi come quando si smise di usare il termine hiljada (mille) che era un vecchio termine croato, perché era stato impiegato dal governo jugoslavo, preferendo il sinonimo tisuca. Si distrussero i monumenti dedicati agli eroi della guerra antinazista, perché erano jugoslavi (Hedges, 2003).
Come i nazionalismi precedono l’esistenza delle nazioni e le creano dal nulla, immaginandosi delle comunità che prima non c’erano, allo stesso modo la pulizia etnica produsse legami solidissimi tra i carnefici, che si sentirono uniti dal senso di colpa e dalla necessità di proseguire nell’escalation di odio e violenza per dare un senso alle atrocità compiute in precedenza, in un circolo vizioso di razionalizzazione dell’imbarbarimento progressivo. Ad ulteriore dimostrazione che la maggior parte delle persone coinvolte in questa pratiche mostruose possiede una coscienza e va ritenuto pienamente responsabile di ciò che sta facendo. Il risultato fu che molti serbi bosniaci – ma certamente non tutti, anzi – si distaccarono da quei criteri morali, psicologici e cognitivi che fino a quel momento avevano impiegato per valutare se stessi e gli altri (Ramet, 2005).
La crisi jugoslava non va letta come il risultato di odio etnico. Quel tipo di interpretazione inverte la storia e comincia a leggerla dalla fine. L’odio è arrivato alla fine. Accettare la naturalezza ed inevitabilità delle animosità etniche ne facilita l’insorgere e il trinceramento in appartenenze gelose, possessive, intolleranti e paranoici (Woodward, 1995). Tutti i gruppi si percepivano come vittime, ignorando gli eccessi della propria parte, ignorando le rivendicazioni altrui. Fu uno di quei casi di autismo collettivo che sono molto frequenti nella specie umana. Il fatto è che finché non esiste un vocabolario comune ed una storia condivisa non ci sarà pace, ma solo assenza di conflitto violento.  Ciò non significa deresponsabilizzare le persone. La gente comune non era innocente. Fu dopo tutto una maggioranza di elettori a continuare a votare per dei candidati che avevano enfatizzato la loro eticità e la contrapposizione rispetto agli altri gruppi etnici e a non votare in massa per chi voleva una pacifica convivenza. Queste persone avrebbero potuto e dovuto immaginare che il continuo rilancio di accuse, l’escalation dei proclami e la progressiva polarizzazione avrebbero causato una guerra civile.


SEGUE L'IMPORTANTE CORREZIONE INTEGRATIVA DI GIULIANO GERI (ZANDONAI EDITORE), CHE RINGRAZIO:

"Un piccolo appunto. Non si può, a rigor di logica, parlare di divisioni "etniche" tra popolazioni della stessa etnia (slavi), dunque l'introduzione di un simile concetto è già di per sé la cifra di una manipolazione a fini diversificati, di cui l'Occidente è responsabile al pari della classe politica interna che ha preparato, studiato a tavolino e poi scatenato la dissoluzione. Inoltre non si può parlare di "nazionalità jugoslava", se non in termini particolari. "Narodnost" è proprio la categoria cui si è voluta sostituire quella, impropria, di "etnia". Gli ultimi censimenti chiedevano ai cittadini jugoslavi di esprimere la propria "nazionalità" (serbi, croati, bosgnacchi ecc.). Chi si rifiutava di appartenere a quelle che sarebbero diventate "gabbie etniche", si definiva ufficialmente di "nazionalità jugoslava", senza alcun criterio né sentimento di appartenenza socio-politica che non fosse quella federale. 
Una settimana fa c'è stato il ventennale della caduta di Vukovar, mirabile esempio di come la guerra civile sia stato un evento rigorosamente pianificato".


5 commenti:

Francesco Botto ha detto...

grazie Stefano, lettura molto interessante

dge for ha detto...

Articolo molto interessante, complimenti!
Un unico appunto. Trovo di una faciloneria che stride con l'accuratezza del resto dell'argomentazione quella frase buttata lì: "I Serbi, Milosevic in primis, restano comunque i principali responsabili di ciò che è avvenuto". A parte l'utilizzo della categoria "i serbi", piuttosto fastidioso, è difficile sostenere che le colpe di Milosevic siano poi così più nette di quelle di Tuđman o Izetbegovic. E' evidente che tutte le elite politiche repubblicane lavorarono fin dagli '80 per la dissoluzione. Per analizzare le cause di questo fatto servirebbe un altro saggio, ma credo che siano da ricercare nella distribuzione dei poteri pensata da Tito nella Costituzione del '74 (pensata per garantire transizione e pace dopo la sua morte, portò la Jugoslavia tra le braccia dei nazionalismi. Fu sicuramente l'errore più grave di Tito).

Anche la decisione presa dopo l'epurazione di Rankovic di abbandonare il tentativo di "fare gli jugoslavi" e iniziare a sottolineare l'appartenenza "etinica" (più correttamente "nazionale") fù il frutto di dinamiche un po' più complesse rispetto al semplice fatto che "molti Serbi stavano tentando di impadronirsi clandestinamente dei centri di potere dell’intera nazione". La realtà è che la misura venne presa innanzitutto per togliere la terra da sotto i piedi alle rivendiacazione nazionalistiche dei Croati e degli albanesi kosovari in primis, i cui nazionalismi cavalcavano la presunta supremazia serba dentro alla Jugoslavia per propagandare il loro sciovinismo. Allora Tito decise per la politica dell'"accuratezza etnica". Dentro al partito, in esercito e polizia, nelle fabbriche, ovunque, la percentuale degli impiegati doveva rispecchiare fedelmente la proporzione nazionale del luogo. Ancora una volta una scelta fatta in buona fede che però alla lunga rese molto più tortuoso il percorso per creare una nuova nazionalità jugoslava. (Col senno di poi un altro errore di Tito, ma la storia fatta a posteriori è un esercizio un po' vano ed è difficile avere la prova che l'unica alternativa non sarebbe stata una repressione brutale ,e forse ancor più controproducente, dei nazionalismi locali).
Credo che il voler soppesare un tanto al chilo le colpe delle guerre sia esercizio vano.

Comunque sia, ho trovato la lettura dell'articolo molto interessante. Non prenderla come una critica esagerata, tanto più che riguarda solo poche righe dello scritto, mentre molte altre forniscono spunti di riflessione preziosi.

Unknown ha detto...

Intanto ringrazio. Senza critiche non si matura ed ogni commento intelligente ed informato arricchisce il testo portando alla luce nuove prospettive, a beneficio di tutti i lettori che verranno dopo. Un blog è fatto dall'autore ma anche dai lettori/commentatori.
A questo proposito, segnalo un altro articolo sulla questione jugoslava che potrebbe meritare un ulteriore commento critico (riguarda il Kosovo):
http://fanuessays.blogspot.com/2011/10/un-po-di-chiarezza-sullintervento-in.html

toni ha detto...

gentile stefano trovo l'analisi molto interessante a fronte di esperienze personali vissute nei balcani (kosovo e bosnia)dove ho operato come funzionario dell'Onu prima e dell'Unione Europea. in merito ho scritto due libri pubbicati con il titolo LA TORRE DEI CRANI e MADRASSE....sto concludendo il terzo in cerca di editore. condivido anche le osservazioni assolutamente puntuali di aredna....ci sono documenti ufficiali e testi in abbondanza, a distanza di anni, che dimostrato come le guerre balcaniche siano state un campione di manipolazione, disinformazione e "dolo internazionale". consiglio la visione di un interessante documentario THE WEIGHT OF CHAIN....dove si ricava con evidenza palmare come i cd. odii religiosi ed etnici siano stati NON la causa delle guerre, bensì gli effetti. un rispettoso saluto.
antonio evangelista

Unknown ha detto...

Antonio Evangelista, Vice Questore Aggiunto e Capo della squadra mobile di Asti, nonchè ex comandante del contingente italiano presso la missione ONU in Kosovo (UNMIK).
Che bello sapere che ci sono lettori di questo calibro!
Mi vado a cercare i due libri citati, anche perché sospetto che l'Alto Adige (e l'Italia) siano a rischio di sviluppi analoghi.