lunedì 7 novembre 2011

Contro il sionismo



Israele ha il diritto di controllare la crescita naturale della popolazione palestinese.
Ruth Gabisonp, docente all’Università Ebraica di Gerusalemme (Pappe, 2010, p. 252)

I confini sono determinati in relazione a dove vivono gli Ebrei, non a dov’è tracciata una linea su una mappa.
Golda Meir, 1971 (Cook, 2006)

Per due anni ho visto la sofferenza della gente e non ho fatto nulla – e questo è spaventoso. Alla fine mi sono sentita come se l’esercito mi avesse tradita – mi hanno usata, non sono più stata capace di riconoscermi. Ciò che chiamiamo proteggere la nostra nazione in realtà significa distruggere vite.
Inbar Michelzon, ex soldatessa, “Israeli army's female recruits denounce treatment of Palestinians”, The Observer, 22 agosto 2010.

Nei tempi addietro Burg sarebbe stato sconfessato e considerato quantomeno un lunatico. Il grave pericolo è che oggi dà voce a fornisce un’insidiosa parvenza di rispettabilità a ciò che fino a questo momento era stato indicibile. Un domani l’infestazione incontrollabile che diffonde potrebbe conferire una completa legittimazione alla delegittimazione di Israele.
Sarah Honig, editoriale apparso sul Jerusalem Post

La rivoluzione sionista ha sempre poggiato su due pilastri: un cammino di giustizia e una leadership etica. Nessuno dei due è più operante. Oggi la nazione israeliana poggia su un’impalcatura di corruzione e su fondamenta di oppressione e ingiustizia. In quanto tale, la fine dell’impresa sionista è già alle porte. Vi sono concrete probabilità che la nostra sia l’ultima generazione sionista. In Israele potrà anche esservi uno Stato ebraico, ma sarà di un genere diverso, strano e spiacevole. […] Ecco che cosa dovrebbe dire il primo ministro al suo popolo: il tempo delle illusioni è finito, è giunto il tempo delle decisioni. Noi amiamo tutta la terra dei nostri avi e in un’altra epoca avremmo desiderato vivere qui da soli. Ma non accadrà. Anche gli arabi hanno i loro sogni ed esigenze. Fra il Giordano e il Mediterraneo non c’è più una netta maggioranza ebraica. Quindi, cari concittadini, non è possibile tenersi tutto quanto senza pagare un prezzo. Non possiamo tenere una maggioranza palestinese sotto lo stivale israeliano, e al tempo stesso pensare di essere l’unica democrazia del Medio Oriente. Non può esservi democrazia senza uguali diritti per tutti coloro che vivono qui, gli arabi come gli ebrei. Non possiamo tenerci i territori e conservare una maggioranza ebraica nell’unico Stato ebraico al mondo: non con mezzi umani, morali ed ebraici. Volete la Grande Israele? Non c’è problema: basta abbandonare la democrazia. Creiamo nel nostro paese un efficiente sistema di separazione razziale, con campi di prigionia e villaggi di detenzione. Il ghetto di Qalqilya e il gulag di Jenin. Volete una maggioranza ebraica? Non c’è problema: o mettete gli arabi su autovetture, autobus, cammelli e asini e li espellete in massa, oppure ci separiamo da loro in modo assoluto, senza trucchi e senza inganni. Una via di mezzo non c’è. Dobbiamo smantellare tutti – tutti – gli insediamenti e tracciare un confine internazionalmente riconosciuto fra il focolare nazionale ebraico e il focolare nazionale palestinese. La Legge del Ritorno degli ebrei si applicherà soltanto nel nostro focolare nazionale, e il loro diritto al ritorno si applicherà soltanto entro i confini dello Stato palestinese. Volete la democrazia? Non c’è problema: o abbandonate la Grande Israele fino all’ultimo insediamento e avamposto, oppure date pieno diritto di cittadinanza e di voto a tutti, arabi compresi. Naturalmente il risultato sarà che quelli che non volevano uno Stato palestinese accanto al nostro ne avranno uno proprio in mezzo a noi, attraverso le urne. Ecco quel che dovrebbe dire il primo ministro al suo popolo. Dovrebbe presentare le alternative in modo chiaro: razzismo ebraico o democrazia; insediamenti o speranza per entrambi i popoli; false visioni di filo spinato, blocchi stradali e terroristi kamikaze, o un confine internazionalmente riconosciuto fra due Stati e una capitale in comune a Gerusalemme.
Avraham Burg, La morte del sionismo, ''Ha Keillah'', XXVIII (2003), 4

Il meccanismo psicologico che gli consente di mantenere una vita all´apparenza normale, civile e anche del tutto "borghese" nel cuore di territori occupati, ostili e pieni di violenza, in mezzo a circa due milioni di persone che vivono in condizioni di oppressione e di umiliazione (in larga misura a causa della presenza degli insediamenti) mentre gran parte del mondo si oppone alla loro scelta e alle loro azioni, è estremamente affascinante. In generale, sembra che quanto più l´ideologia degli insediamenti diventa infondata e pericolosa tanto più i suoi sostenitori sono quasi condannati a esaltarla, a investirla di un sacro senso di missione. A volte mi chiedo se questo sforzo nasca anche dalla paura che filtra in loro, a dispetto di tutto, proprio a causa del loro essere persone lucide, realistiche e corrette in qualunque altro ambito della vita. Una paura causata dalla realtà insostenibile e suicida che il loro modo di agire sta imponendo al paese e a loro stessi. Se infatti i coloni negano completamente questa realtà insostenibile, nonché le conseguenze dello stato di apartheid che hanno creato, ciò significa che hanno semplicemente e letteralmente perso il contatto con essa. È quasi divertente vedere come, prigionieri del proprio sogno, definiscano "deliranti" o "pazzoidi" i loro oppositori; e la loro paura del risveglio è comprensibile.
David Grossman, “Amo Israele ma combatto l´illusione delle colonie”, La Repubblica, 13 Novembre 2010

La questione israelo-palestinese è permanentemente avvolta nelle nebbie di concettualizzazioni perverse sotto la forma di grandiose generalizzazioni e rassicuranti semplificazioni tipiche di quegli intellettuali che usano formule che scuotono e stordiscono, al costo della perdita del contatto con la realtà. Si invocano i grandi principi solo per elidere il reale. La realtà dei fatti, attualmente, è quella di un popolo che si è asserragliato in una cittadella fortificata che si è costruito attorno e che ne opprime un altro, in un rapporto di forze spaventosamente sproporzionato. È probabile che una maggioranza di Israeliani farebbe volentieri a meno di vivere in queste condizioni ma è vittima dei bombardamenti propagandistici di mezzi di informazioni quasi uniformemente fedeli alla linea nazionalista e della supremazia giudaica e quindi promotori di un pensiero binario dal quale è difficile emanciparsi. Dall’altra parte ci sono centinaia di migliaia di Palestinesi in preda al risentimento, al rancore ed alla paura delle paure ebraiche, costretti a vivere in un territorio che equivale al 10% della Palestina storica, la parte più povera di risorse (in particolare di acqua).

Il sionismo
Israele non è mai esistito, è una falsificazione operata dal clero giudaico che cercava, come i loro omologhi di altre religioni, di accumulare sempre più potere ed autorità. La Bibbia è solo un guazzabuglio di leggende, tradizioni, genealogie e riti di tanti popoli diversi, fusi assieme per poter dimostrare l’esistenza di un popolo che non c’è mai stato. La “razza” ebrea è un’invenzione, come la lingua. L’ebraico moderno non esisteva, è una creazione posteriore alla nascita di Israele, resa necessaria da questo evento e dalla politica di nazionalizzazione della Diaspora chiamata sionismo. Il sionismo è il progetto di dominio totale di un gruppo etnico – inventato tanto quanto gli altri – sugli altri gruppi residenti in una certa porzione del Medio Oriente. È perfettamente comprensibile che la reazione possa essere quella di una resistenza violenta. Come ci si può porre nei confronti di una Golda Meir che afferma che non c’erano dei Palestinesi a cui sottrarre le terre – “Non esistevano!”?. Equivale alla dottrina statunitense del Destino Manifesto nei confronti dei Nativi Americani: non sanno valorizzare le terre e le risorse, sono troppo incivili per meritarsele, meglio se ce le prendiamo noi. Che si stabiliscano nelle riserve, possibilmente senza dar toppi problemi.  
Non è un accidente del caso che l’avanguardia dei coloni negli insediamenti sia stata composta da ebrei americani, cresciuti nel mito della frontiera: la loro era l’ideologia di chi ha già e vuole avere ancora di più ed è pronto a schiacciare chi interferisce, nella convinzione di sapere esattamente cosa Dio ed Abramo si sono detti migliaia di anni fa. Pronti ad implicare milioni di altre persone, dell’una e dell’altra parte, nei loro crimini. Ci sono andati di mezzo altre migliaia di Ebrei che non avevano nulla a che spartire con questa hybris mortale. La campagna del Sinai del 1956 è stata una chiara indicazione della militarizzazione della politica e della presenza nelle alte sfere di una considerevole concentrazione di persone che non credono ad altro che al potere della forza.
L’insigne storico israeliano Benny Morris ha stabilito che tre quarti dei Palestinesi che furono costretti a lasciare le loro case lo fecero sotto la pressione dell’esercito israeliano, che massacrava e distruggeva case e villaggi. Il progetto era quello di edificare uno stato giudeo che comprendesse il minor numero possibile di Arabi. Oggi mezzo milione di Ebrei vive nei Territori Occupati, la metà dei quali vi si è stabilita dopo gli Accordi di Oslo (1993). C’è stata un’unica interruzione, quella del governo Rabin (1992-1995).
Israele è un paese immaginario, un ideale ben lontano dalla realtà israeliana concreta. Da sempre si contrappongono, idealmente, l’ebreo diasporico e cosmopolita e l’ebreo conquistatore e particolarista. Questi due estremi non esistono nella realtà, sono solo due polarità in uno spettro lungo il quale si collocano gli esseri umani che si sentono in varia misura legati alla vicenda di Israele.
Durante la prima metà del ventesimo secolo quasi tutte le organizzazioni, istituzioni e comunità ebraiche europee erano scettiche, ostili o molto tiepidamente favorevoli all’opzione sionista. Non ci si sognava di dire che l’unico vero ebreo doveva essere sionista. Un giudizio del genere appartiene, oggi come ieri, al registro dell’intimidazione morale. Nessuno detiene la proprietà intellettuale della denominazione “ebreo DOC”. Un adulto moralmente e spiritualmente maturo dovrebbe rifiutarsi di permettere che qualcun altro lo arruoli in un “noi” che oscura e castra la molteplicità delle sue mediazioni e delle affiliazioni. Questo non è successo, se non sporadicamente, tra gli Ebrei israeliani ed ora Israele è l’unico luogo al mondo in cui gli Ebrei sono in pericolo in quanto tali.
Si dice che quasi nessuno sia interessato al sogno di Grande Israele, che comprenderebbe una buona parte della Giordania, eppure in 10 anni il numero di coloni in Cisgiordania è più che raddoppiato. È lecito parlare di annessionismo rampante ed una maggioranza di Israeliani ha scelto di non opporsi, assumendosi la diretta responsabilità di tutto ciò che succederà negli anni a venire.
Se gli Israeliani sono così convinti della giustezza della loro causa, qual è la ragione della violenta intolleranza rivolta contro chi dissente e propone alternative? Le parole forse non uccidono, ma facilitano il compito di chi uccide, non versano sangue ma rendono accettabile il versamento del sangue altrui, lo incoraggiano.
Purtroppo le cose non cambieranno finché gli Israeliani non dovranno pagare un costo troppo alto per l’occupazione. Per il momento la maggioranza non pensa di essere nel torto, anzi, ritiene di essere moralmente inappuntabile, come il suo esercito.

Israele come etnocrazia teonomica
“I buoni steccati fanno i buoni vicini” dice Finkielkraut.
“Questa frase mi fa rabbrividire”, replica Brauman.
“Io la trovo ammirevole. Non le vanno bene le frontiere?”, ribatte Finkielkraut.
“Una frontiera non è una barriera, è un luogo di passaggio. A me piacciono le frontiere”, conclude Brauman.
(“La Discorde”, p. 152)
Cosa succederebbe se i cristiani americani cercassero di trasformare gli Stati Uniti in uno Stato Cristiano? L’opinione pubblica nazionale ed internazionale si solleverebbe. Invece sono in pochi a preoccuparsi del fatto che Israele intenda diventare uno Stato Giudeo. Uno stato giudeo è uno stato in cui gli Ebrei hanno il monopolio della violenza legittima e lo usano per difendere e promuovere i propri interessi. Saranno sempre loro ad avere l’ultima parola e faranno di tutto per evitare di perdere il controllo di questo monopolio, poiché si sentono perseguitati. La situazione è assolutamente surreale: sono perseguitato, entro in causa tua e la requisisco per difendermi. La cosa è umanamente ed umanitariamente accettabile: è giusto aiutare il nostro prossimo. Ma quando finisce la minaccia ti restituisco la casa, non me la tengo con il pretesto che il persecutore potrebbe farsi vivo di nuovo, non opprimo gli inquilini al punto da generare una tale paranoia che continuo a sentirmi permanentemente perseguitato.
La fede etnica conduce quasi inevitabilmente alla balcanizzazione mentale. Il veleno essenzialista contamina le coscienze e le intossica, impedendo all’infermo di osservare obiettivamente la realtà. L’esempio del kibbutz, l’istituzione formalmente più progressista d’Israele, è emblematico: anche se tutti i suoi membri sono atei, gli arabi ne sono banditi. Per farne parte dovrebbero comunque convertirsi all’ebraismo.
Ci si aspetta che ogni Ebreo del pianeta – chi scrive, tra parentesi, non fa parte di questa categoria umana – sostenga la causa sionista. Ma perché gli Ebrei che vivono in Europa dovrebbero vibrare all’unisono con gli Ebrei che risiedono in uno stato che contraddice i valori costituzionali delle democrazie europee?
L’accusa di antisemitismo o di odio verso se stessi è una fenomenale scemenza. In quasi tutti i casi i critici di Israele non hanno alcun problema con gli Ebrei che non giustificano il sionismo; inoltre molti di loro sono seriamente preoccupati per la sorte degli Ebrei proprio in conseguenza del comportamento israeliano.
La nozione di stato giudeo impedisce ad Israele di essere una nazione inclusiva. Come potrebbe mai essere democratica una società organizzata intorno al criterio etnico? La neutralità religiosa ed etnica delle istituzioni pubbliche è la condizione necessaria della democrazia, l’unico sistema che si vincola a garantire l’uguaglianza dei suoi cittadini davanti alla legge. Al contrario Israele è uno stato democratico per gli Ebrei ed è uno stato giudeo per gli Arabi. L’etnonazionalismo diventa un veicolo di bigottismo, sadismo, superbia, fanatismo e bramosia sconfinata.
In particolare, in Israele l’aspirazione democratica cozza con una prassi quotidiana di violenza ed arbitrio e, laddove esiste, di pace fondata sull’unica base della smaccata superiorità militare. Sarebbe assurdo pensare di frazionare il mondo in un numero di staterelli corrispondenti al numero di popoli che si identificano come tali. Al grido di “l’arabo comprende solo la forza”, i Palestinesi sono diventati i pellerossa d’Israele. Solo in Israele si fanno sondaggi dove si chiede alla popolazione se sia favorevole all’espulsione di una sua parte (ossia se consideri una categoria di cittadini – i discendenti degli autoctoni – come un tumore nel corpo sociale) e le risposte sono in maggioranza positive.
Durante l'influente conferenza Herzliya del dicembre 2003, il Dr. Yitzhak Ravid, un ricercatore di grado elevato dell'Autorità governativa per gli Armamenti, auspicò che Israele "attuasse una rigorosa politica di pianificazione delle nascite in relazione alla sua popolazione musulmana". Avvertimenti in tal senso furono espressi alla medesima conferenza anche al massimo livello, compreso un discorso di Benyamin Netanyahu. Egli osservò che "se c'è un problema demografico, e c'è, esso riguarda gli arabi israeliani che resteranno cittadini israeliani" (Cook, 2006). Netanyahu, affermò che se gli Arabi arriveranno a costituire il 40% della popolazione di Israele sarà la fine dello stato giudeo: “Ma anche il 20% è un problema e se le relazioni con questo 20% diventano problematiche, lo stato è autorizzato a prendere misure drastiche” (Pappe, 2010).
È sconcertante osservare un popolo segnato dalla catastrofe nazista che ne maltratta un altro, gli sottrae la terra e demolisce le sue abitazioni, autoproclamandosi modello di democrazia per il Medio Oriente, esito finale di un movimento di liberazione nazionale che si è confuso con un movimento neo-coloniale e razziale.
Perché mai gli Ebrei di Damasco e di Beirut, così vicini a Gerusalemme, non sentivano il bisogno di recarvisi e invece ora si afferma che Gerusalemme debba essere etnicamente pura? E perché la Bibbia è interpretata come una cronaca fedele degli eventi passati e, contemporaneamente, come un registro catastale?

L’Olocausto ed un’autoghettizzazione suicida alle frontiere dell’Impero Americano
Oltre ai tradizionali 6 milioni di Ebrei (un numero inventato di sana pianta – furono comunque diversi milioni, su questo non ci può essere alcun dubbio, con buona pace dei negazionisti), nella Shoah morirono anche 5 milioni di non-Ebrei, ma questo è un aspetto della questione che viene generalmente trascurato.
Più gli Israeliani si sono allontanati temporalmente dall’Olocausto, più sono diventati paranoici, cinici e pessimisti. L’Olocausto è diventato come il prezzemolo: poiché nulla di quanto perpetrato dall’esercito e dai coloni israeliani è paragonabile all’Olocausto e l’alternativa sarebbe un secondo Olocausto, allora tutto è permesso. Così si uccide l’empatia: la memoria e la paura del futuro hanno reso troppi israeliani indifferenti ai traumi e sofferenze altrui. Una gara a chi ha subìto il trauma peggiore compromette ogni possibile margine di comprensione verso il prossimo. L’intero sistema ha inserito il pilota automatico e sfreccia verso l’abisso.
L’ideologia della Shoah non era così prevalente fino alla fine degli anni Settanta. Lentamente è servita a bloccare le commemorazioni degli altri genocidi, come se valessero di meno; a dire il vero per molti Ebrei è così: le morti altrui valgono di meno. Succede a tutti gli esseri umani: siamo una specie egocentrica. I milioni di non-Ebrei che morirono nei campi di sterminio sono stati ugualmente eclissati. Parallelamente sorge la finzione dell’identità europea “giudeo-cristiana”, un’invenzione ideologica in funzione anti-islamica.
La Soluzione Finale non giustifica la Soluzione Sionista. La decisione di affidarsi solo alle proprie forze non autorizza a estendere i propri diritti a discapito di quelli altrui. La memoria dei morti non giustifica il presente. I vivi non sono servi dei morti, i morti non pretendono nulla, neppure di essere onorati, non possono neppure dire la loro. Un ipotetico sondaggio tra le vittime dell’Olocausto potrebbe mostrare che queste sono in gran parte critiche dell’attuale atteggiamento israeliano. La lezione dell’Olocausto è che bisogna contenere e neutralizzare il fascismo, l’etnonazionalismo, il razzismo, ecc. non che bisogna condonare quello dei discendenti delle vittime. Anzi, le azioni del presente sono un oltraggio alle vittime del passato ed una minaccia per i vivi del presente, in tutto il mondo. Il nazismo non può essere l’unico criterio per valutare le azioni di un popolo. Si può essere infami anche senza imitarli in tutto e per tutto.
Avraham Burg, in “Sconfiggere Hitler”, ha illustrato molto bene il tragico impasse israeliano. Ecco una sintesi per sommi capi delle argomentazioni impiegate da un politico che è stato presidente ad interim dello stato israeliano: Il trauma della Shoah mi sembrava una malattia terminale ed incurabile – aggrappati tenacemente ai ricordi e sofferenze, avvinti al trauma, con il quale giustifichiamo tutto. Il ripudio dell’umanesimo universalista e dell’eredità illuminista di Erasmo da Rotterdam, Pico della Mirandola, Montesquieu, ecc., la Shoah come pilastro teologico dell’identità israeliana moderna. Una sola lingua, quella della tensione e dei traumi, dell’ostilità e dello scontro, mentre altrove si cerca di parlare la lingua dei ponti e dei legami, della comprensione e dell’indulgenza. A volte ho la sgradevole sensazione che Israele non possa esistere senza questa condizione di conflittualità. C’è un culto ebraico della morte (necrofilia: ogni anno Israele conferisce ritualmente la cittadinanza alle vittime della Shoah). I nostri figli non sono sopravvissuti per procura, lo Stato d’Israele non deve diventare il portavoce dei morti. Tutto questo produce un pericoloso egoismo etnico, l’aspirazione alla forza fisica (quasi primitiva), l’antitesi dell’autentica essenza interiore dell’ebraismo. Di conseguenza sacralizziamo la questione sicurezza, divenuta non di rado un’ossessione vendicativa e violenta, una paranoia infinita che si traduce in perenne diffidenza: siamo ormai incapaci di distinguere un amico da un aggressore, sordi di fronte alla cacofonia morale dello “Stato di vittime” cui tutto è permesso – compreso sacrificare l’altro. La condizione della vittima è liberatoria. Lo stato militarista non ha altra via d’azione che non sia una rigidità politica e sociale fondata sulla predisposizione del popolo ai pregiudizi e alla discriminazione di ogni “altro” e di chiunque sia considerato avversario della nazione unificata. Ogni nemico è assoluto, ogni guerra totale. Più il nemico è malvagio, più noi siamo buoni. L’esercito di occupazione israeliano, generalmente aggressivo, è chiamato “Forze di Difesa”. Gli avversari sono metanemici, demoni. Siamo posseduti da un’isteria cronica. Tutto è sempiternamente in gioco: o tutto o niente, essere o non essere. Eppure coltiviamo la convinzione che a noi questo non può capitare, che siamo immunizzati dall’odio e dal razzismo.
Più gli Ebrei soffrono più il sionismo è legittimo. Chi non vuole vivere in Israele non si merita di farlo. È un processo di auto innamoramento, di feticismo della propria esteriorità, un narcisismo autoincensatore. Non c’è spazio per la sofferenza e le tragedie altrui. È come il caso del bambino maltrattato che perpetua lo schema patologico familiare, diventando a sua volta un padre padrone…il bambino non capisce che c’è una realtà diversa, che è possibile una vita diversa, migliore di quella che gli ha riservato il suo triste destino. Per questo anche colui che è stato umiliato e perseguitato può diventare di colpo simile ai suoi peggiori persecutori. Le angherie subite in passato non garantiscono l’immunità morale nel presente di colui che è appena diventato il padrone, anzi. Serve un impegno per una vita più clemente e più tollerante. 
Sempre Burg, in un’intervista, discute della questione del Grande Israele: “La destra ultranazionalista non ha accantonato il sogno di dar vita al Grande Israele... «Più che di "sogno" parlerei di incubo che può sfociare in tragedia... Anche qui: si abbia il coraggio di dire la verità. Volete il Grande Israele? Non c'è problema: basta abbandonare la democrazia. Creiamo nel nostro Paese un efficiente sistema di separazione razziale, con campi di prigionia e villaggi di detenzione. Il ghetto di Kalkilya e il gulag di Jenin. Volete una maggioranza ebraica? Non c'è problema: o mettere a forza gli arabi sugli autobus e li espellete in massa, oppure ci separiamo da loro in modo assoluto. Una via di mezzo non c'è»”.
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In ogni caso, se esistesse una reale minaccia – ed è perfettamente possibile che esista e che non sia incarnata dai Palestinesi ma da forze molto più potenti ed oscure, http://fanuessays.blogspot.com/2011/10/verso-un-secondo-olocausto.html – concentrarsi in un fazzoletto di terra con le spalle al mare e circondato da popoli che si disprezzano e che rimangono in generale ostili alla tua presenza ed al tuo atteggiamento, per di più sottraendogli le terre con la forza, è una strategia suicida.
Fin dal 1949 i diplomatici americani fedeli alla dottrina Truman avevano spiegato agli Israeliani che la loro intransigenza avrebbe messo a repentaglio il futuro del paese e del mondo occidentale. 
Si è assistito all’uscita da un ghetto per rientrare in un ghetto ancora più grande, etnocratico, in un tragico scimmiottamento della condizione degli Ebrei europei nel Terzo Reich, quasi una coazione a riprodurre i traumi di un tempo. Un ghetto che dipende dalla benevolenza degli Stati Uniti, allo stesso tempo in cui le sue pretese irragionevoli moltiplicano la sfiducia e il risentimento tra masse crescenti di cittadini statunitensi, inclusi gli ebrei americani, che ormai giudicano che gli interessi di Israele siano in contrasto coi loro interessi e che Israele sia una minaccia per la pace nel mondo. Gli Israeliani sono diventati una minoranza extraterritoriale dell’impero americano, una minoranza non particolarmente ben vista.

Terrorismo sionista
In passato i servizi segreti di Israele hanno organizzato falsi attentati in Iraq, Egitto e in Marocco per disseminare la paura tra gli Ebrei sefarditi e spingerli ad emigrare verso Israele. Nonostante il fatto che nel Maghreb siano stati i coloni francesi a perseguitare gli Ebrei al tempo di Vichy e i musulmani a nasconderli per proteggerli, Ben Gurion rimase sempre estremamente riluttante a condannare l’uccisione di civili arabi con bombe e granate (ci furono decine di attentati sionisti tra il 1937 e il 1948). Itzhak Shamir era uno dei leader del gruppo terroristico Stern, Begin proveniva da Irgun. Shamir è stato primo ministro di Israele tra il 1983 ed il 1984 e tra il 1986 ed il 1992. Menachem Begin è stato primo ministro tra il 1977 ed il 1983. È piuttosto significativo che Israele sia stato governato da ex terroristi per un periodo compreso tra il 1977 ed il 1992, con il breve intervallo del governo di Shimon Peres, uno degli ideatori della Campagna del Sinai ed oggi patrocinatore di una suicida guerra all’Iran, pur avendo fondato il "Peres Center for Peace".


LINK UTILI
http://fanuessays.blogspot.com/2011/10/i-giusti-tra-le-nazioni-salvare.html
http://fanuessays.blogspot.com/2011/10/il-governo-israeliano-sta-distruggendo.html

Bibliografia:
Rony Brauman & Alain Finkielkraut, La Discorde. Israël-Palestine, les Juifs, la France (conversations avec Elisabeth Lévy), Paris : Mille et Une Nuits, 2006.
Avraham Burg, Sconfiggere Hitler : per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico, Vicenza : Neri Pozza, 2008.
Jonathan Cook, Blood and Religion. The Unmasking of the Jewish and Democratic State, Pluto Press, London-Ann Arbor 2006
Yitzhak Laor, Le nouveau philosémitisme européen et “le camp de la paix” en Israël, Paris: La fabrique 2007
Gideon Levy, The Punishment of Gaza, London: Verso, 2010.
Michael Neumann, The case against Israel, CounterPunch and AK Press, 2005.
Eyal Weizman, Il male minore, Roma: Nottetempo, 2009.

1 commento:

Anonimo ha detto...

hai letto gilad atzmon?