martedì 18 ottobre 2011

L'avvento delle caste genetiche



La democrazia è sotto tiro anche nell’ambito scientifico.
Negli ultimi anni assistiamo ad un revival dell’eugenetica (o eugenica), una branca delle scienze umane che studia le modalità che dovrebbero consentire all’umanità di migliorare sé stessa a livello fisico e cognitivo. Di particolare interesse è un’antologia di saggi pubblicata all’inizio del 2011, intitolata “Enhancing human capacities” (“Migliorare le abilità umane”) (Savulescu, Meulen, Kahane, 2011) e che, come tante altre, analoghe recenti pubblicazioni di alto profilo, mira a rendere più appetibile in seno all’opinione pubblica la prospettiva di una correzione chimica e biotecnologica delle nostre défaillances morali. Si interroga sull’ammissibilità di una serie di interventi migliorativi per mezzo dell’ingegneria genetica e della farmaceutica e che sono presentati come motivati da considerazioni di carattere umanitario. Come ad esempio la somministrazione di psicofarmaci ai criminali: si altererebbero chimicamente le loro emozioni ed il loro comportamento, invece di incarcerarli. Oppure il rafforzamento della memoria, l’accrescimento delle facoltà intellettuali, il mitigamento dell’incostanza temperamentale di certi bambini ed adulti (a partire dal prozac), l’espansione dell’empatia e della sociabilità (l’ossitocina, che accresce la solidarietà tra i membri del proprio gruppo, ma anche la sfiducia verso chi non ne fa parte). L’idea è quella di rendere la specie umana “servizievole e responsabile nei confronti degli altri, con un forte senso di solidarietà e giustizia”, riducendo la nostra aggressività e desiderio di vendetta, aprendo la nostra mente alle opinioni altrui ed al rispetto per l’ambiente. La prima, elementare obiezione è quanti vorrebbero veramente assumere dei farmaci il cui risultato sarebbe duplice, rendere se stessi più fiduciosi, miti e gentili, ma anche più vulnerabili e più agevolmente manipolabili, in un’epoca in cui le tecniche di manipolazione delle coscienze di elettori e consumatori sono estremamente sofisticate ed in certi casi pressoché impercettibili? Gli specialisti che hanno contribuito a quest’opera ritengono che i vantaggi eccedano gli svantaggi e che la prospettiva di un’umanità felice e non-violenta debba prevalere su ogni altra preoccupazione. D’altra parte, precisano, l’amore non ha alcunché di spirituale, è solo un’intossicazione come l’alcool o la droga, il mero prodotto di neurotrasmettitori. In teoria, un giorno i neurocognitivisti potrebbero essere in grado di riprodurre chimicamente le esperienze e sensazioni che si provano quando ci si innamora e non ci sarebbero più divorzi o violenze domestiche. Allo stesso tempo, come i leggendari filtri d’amore, queste pillole farebbero innamorare di noi anche chi non è interessato ed altre sostanze consimili potrebbero tornare molto comode ai demagoghi. Altre pillole potranno cancellare i ricordi di esperienze traumatiche, che però possono essere estremamente formative e metterci in guardia dal ricadere negli stessi errori. Nel film di fantascienza “Star Trek V - L'Ultima Frontiera” (1989), il capitano Tiberius Kirk – con toni ed argomentazioni che ricordano le proteste del Selvaggio John, in “Mondo Nuovo” di Aldous Huxley –, esprime molto bene le ragioni dei critici: "Sai bene che il dolore e la colpa non possono essere eliminati dal gesto di una mano fatata. Le cose che portiamo con noi ci rendono ciò che siamo. Perdendole, perdiamo la nostra identità. Non voglio che mi portino via il mio dolore, ne ho bisogno!".
Altri sviluppi tecnologi ci permetteranno di caricare e scaricare informazioni tra cervelli e computer, forse entro una generazione, e senza usare chips: la macchina userebbe uno scanner per leggere i miei pensieri e tradurli in operazioni. Gli interventi – genetici e chimici – migliorativi favorirebbero gli atleti ma anche i lavoratori manuali, che acquisterebbero vigore, resistenza e perizia, abbellirebbero l’umanità – ed uno si domanda secondo quali canoni estetici –, aiuterebbero a prevenire quasi tutte le malattie e disabilità mentali e fisiche, estenderebbe la longevità umana fin quasi sulla soglia dell’immortalità.
Il complesso dei possibili interventi consentirebbe all’umanità di porre fine alle guerre, alla povertà, all’inquinamento. Il compito di instaurare sulla terra il regno della fratellanza, superando il dominio dell’uomo sull’uomo, è così affidato essenzialmente alla scienza, in nome di un’utopia tecnocratica che col passare degli anni si carica di venature messianiche. Si badi bene che la premessa di fondo è che l’intera umanità sia responsabile nella stessa misura della miserevole condizione in cui versa il mondo e che le classi dirigenti possano fare ben poco. È importante precisare che questa impostazione è di matrice ideologica: una diversa analisi farebbe propendere per una differente lettura della realtà, in cui, ad esempio, chi detiene il potere politico ed economico tende ad accentuare i vizi umani per il proprio tornaconto, a detrimento della specie e del pianeta. In questo senso, non sarebbe sorprendente che quelle medesime tecniche che dovrebbero perfezionare l’umanità potrebbero essere adoperate per asservirne una parte o per creare soldati ed agenti privi di coscienza. Inoltre certi carrieristi sarebbero ben felici di poter sopprimere scrupoli e sensi di colpa mentre schiacciano i concorrenti, diversi governi non esiterebbero ad imporre l’assunzione di certi farmaci e l’adozione di certe pratiche biotecnologiche per conservare il potere, i diritti di criminali, omosessuali e poveri potrebbero essere gravemente a rischio in una società che crede nella risoluzione istantanea ed “umanitaria” dei suoi “problemi”. È senza dubbio significativo che nella suddetta antologia non appaiano mai termini come “autoritario” e “dispotico”, e che “tirannia” sia impiegato nell’espressione “la tirannia della normalità”.
Altri studiosi sono stati più audaci. James D. Watson, premio Nobel per la scoperta della struttura del DNA, in occasione di un convegno sulle prospettive dell’ingegneria della linea germinale (definizione tecnica per la nuova eugenetica), ha minimizzato l’importanza di ottenere il consenso dell’opinione pubblica e dei legislatori dicendo: “non sono affari loro. Se c’è un terribile abuso e la gente muore allora si possono fare delle regolamentazioni” (Stock & Campbell 2000, p. 84). Allo stesso convegno Watson ha spiegato così la sua strategia per il futuro: “dobbiamo fare attenzione a non ammettere fin dall’inizio[di un programma di genetica della linea germinale umana] che siano per tre quarti ‘malvagi’ e per un quarto buoni”. Il termine ‘malvagio’ va qui inteso nel senso di malintenzionati dal punto di vista dell’opinione comune. Da notare il sinistro parallelo con le parole del Grande Inquisitore di Dostoevskij: “e appunto in questo inganno starà la nostra sofferenza giacché dovremo mentire”. Proprio come il Grande Inquisitore, il fine ultimo è il bene dell’umanità ed ogni mezzo è lecito, persino “la distruzione del patrimonio genetico mondiale” (Watson, ibidem). Come nel caso degli eroi negativi di Albert Camus, la rivolta contro il fato si trasforma nella rivolta contro la natura e mentre il Grande Inquisitore giustificava le sue decisioni con il fatto di amare l’umanità molto più di quanto amasse Dio, Watson rivela che i genetisti “si divertono un mondo ad aiutare la gente. È quel che cerchiamo di fare” (ibidem).
Dopo aver recitato la leggenda del Grande Inquisitore, Ivan Karamazov si rivolge a Aljòsa con queste parole: “supponi che fra tutti questi uomini non desiderosi che di sordidi beni materiali se ne sia trovato anche uno solo come il mio vecchio inquisitore, che abbia mangiato anche lui radici nel deserto e si sia accanito a domare la propria carne per rendersi libero e perfetto, ma che però abbia in tutta la sua vita amato l’umanità: a un tratto ha aperto gli occhi e ha veduto che non è una gran felicità morale raggiungere la perfezione del volere, per doversi in pari tempo convincere che milioni di altre creature di Dio sono rimaste imperfette, che esse non saranno mai in grado di servirsi della loro libertà, che dai miseri ribelli non usciranno mai dei giganti per condurre a compimento la torre, che non per simili paperotti il grande idealista ha sognato la sua armonia... Dopo aver compreso tutto ciò, egli è tornato indietro e si è unito... alle persone intelligenti”. Presumibilmente persone “intelligenti” come Lee M. Silver, professore di biologia molecolare all’Università di Princeton, autore di “Il paradiso clonato” (1998) e Gregory Stock, biofisico all’Università della California e imprenditore biotech, autore di “Redesigning Humans. Our inevitable genetic future”[Ridisegnare gli umani. Il nostro inevitabile futuro genetico] (2002).
Silver delinea un possibile scenario conseguente all’applicazione su vasta scala dell’ingegneria della linea germinale in un regime di libero mercato, cioè l’emergere di una classe di aristocratici del gene, chiamati (GenRich), che gradualmente e senza seguire un piano prestabilito prendono il controllo dei mezzi di informazione, dell’economia e della finanza e delle tecnoscienze. Per Silver, che ciò sia qualcosa più che una possibilità è testimoniato dal fatto che diversi genitori sono già disposti a spendere cifre colossali per assicurare ai propri figli un’educazione d’eccellenza e non si capisce perché non dovrebbero essere pronti a farlo anche prima della loro nascita. Quest’evoluzione umana artificiale potrebbe in ultima analisi provocare un tale divario biologico tra esseri umani che i GenRich potrebbero scoprire di non potersi più riprodurre con i “naturali”. Cioè a dire la specie umana si dividerebbe in due specie distinte. L’ideale di superuomo abbozzato da Stock non è meno ardito e persino più inquietante. In un libro che, nelle parole di James D. Watson, disvela “il lato compassionevole della scienza” (sic!), Stock parla di un tempo futuro in cui si potranno irreggimentare i lignaggi umani ed iscrivere nel corredo genetico delle persone le loro future specializzazioni professionali. Un tempo in cui “se la società crede che le donne siano (o dovrebbero essere) più simpatetiche e premurose ed i ragazzi più aggressivi ed indipendenti, allora a prescindere dal fatto che queste differenze di genere siano vere oppure no, esse diventeranno progressivamente vere”. Stock prevede che l’atto del concepimento sarà inevitabilmente trasferito dal letto al laboratorio e che questa transizione non sarà più sconvolgente di quella avvenuta quando il momento della nascita cominciò ad avere luogo in ospedale piuttosto che nell’ambiente domestico. Incontriamo la caratteristica ipocrisia di un membro delle classi elevate che si rivolge ai lettori in qualità di campione dei diritti delle masse (Stock 2002: p. 190): “Molti si opporranno con veemenza [al miglioramento genetico], ma molti di questi ammonimenti…proverranno da persone che hanno più da perdere – i meglio dotati. Sicuramente i loro figli saranno quelli che avranno più da perdere dall’arrivo di un bazar genetico dove tutti i genitori possono ottenere talenti equivalenti per i loro figli”. Che si tratti di un esercizio di retorica classista, reazionaria e determinista è evidente dal fatto che l’autore ritiene che la posizione sociale dei membri dell’élite sia dovuta alla loro dotazione genetica e non alla configurazione di una società in cui i privilegiati, per ovvie e comprensibili ragioni, cercano di rallentare la mobilità verso l’alto di chi aspira ad una vita migliore. L’esito di questa costruzione intellettuale biecamente scientistica, che per sua natura non può che tramutarsi in un incubo distopico, visto che esclude ogni margine di incertezza e cautela, è prevedibile: “man mano che la società si avvicina ad essere una meritocrazia, i più talentuosi, al di là di appartenenze etniche ed estrazione sociale, si mischieranno tra loro e si accoppieranno. Con il passare del tempo, questa auto-selezione tenderà a dividere la società, distanziando incrementalmente i dotati dai meno dotati” (p. 187).
Quello sarà il tempo dell’Uomo del Sottosuolo di Dostoevskij, tanto premuroso, comprensivo e generoso nei suoi stessi confronti quanto incapace di provare vero amore per il prossimo.
In un breve scritto intitolato “Preventing a Brave New World” (prevenire un Mondo Nuovo, nell’accezione distopica di Aldous Huxley) il medico e bioeticista Leon Kass ha dedicato alcune penetranti riflessioni alle forze ed alle logiche che sospingono un progetto il cui umanitarismo medico-scientifico è solo una facciata che adombra una profonda misantropia ed una preoccupante, sconfinata megalomania. Meditando sul significato della narrazione huxleyana, Kass nota che non c’è nulla di straordinario in quel tipo di sviluppo della civiltà umana. Anzi, è perfettamente in linea con le tendenze ed aspirazioni odiernamente prevalenti, “le più umane e progressiste”. Sarebbe invece strano che non si arrivasse ad una società del genere, posta sotto la tutela della “mano gentile dell’umanitarismo”, che facesse largo uso della manipolazione genetica, dei famarci psicoattivi, delle distrazioni ipertecnologiche. Kass descrive la società huxleyana: “alla fine l’umanità è riuscita ad eliminare le malattie, l’aggressività, la guerra, l’ansietà, la sofferenza, il senso di colpa, l’invidia, il rimorso. Ma è stata una vittoria ottenuta a caro prezzo: omologazione, mediocrità, attività dozzinali, legami superficiali, gusti degradati, falso compiacimento ed anime prive di amore ed aneliti. Il Mondo Nuovo ha ottenuto la prosperità, lo coesione, la stabilità ed un soddisfacimento quasi universale, solo per essere popolato da creature che hanno solo una aspetto umano, la loro umanità rinsecchita” (Kass, 2001). Così de-umanizzati da non essere neppure consapevoli di tutto quello che è andato perduto. A ben guardare, non è occorsa alcuna svolta tirannica violenta; come il Grande Inquisitore di Dostoevskij, il governo mondiale ha convinto gli esseri umani che salute, sicurezza, benessere, piacere e longevità erano i valori prioritari e la civiltà si è impegnata a garantirli, trascurando più o meno deliberatamente autodeterminazione e vita interiore. Oggi, osserva lo studioso americano, fatalismo e relativismo impediscono di erigere una difesa efficace contro queste forze oscure, persuase di incarnare il Meglio ed il Progresso: “l’autostrada umanitaria verso il Mondo Nuovo si apre di fronte a noi…l’umanità del futuro umano è nelle nostre mani”.
Quella dell’eugenetica – dal greco ε ("bene") e γένος ("stirpe, razza") – è una prospettiva faustiana dettata dalla pretesa di poter governare l’evoluzione biologica, plasmare il corso dell’umanità futura, attraverso l’ingegneria genetica o, nel secolo scorso, la sterilizzazione delle persone giudicate inadatte al ruolo di genitori. Invece della selezione naturale casuale, homo faber programma una selezione artificiale dei nascituri, per valorizzare il materiale umano, inteso come una risorsa naturale da sfruttare. L’evoluzione umana deve diventare autocinetica ed autodiretta e l’eugenismo si presta a fungere da cintura di trasmissione tra il darwinismo sociale reazionario (biopolitica selezionista) e l’ingegneria sociale progressista. I suoi fautori lo considerano inoppugnabile perché dalla parte del bene, della razionalità, dell’umanità, per il miglioramento dell’intera specie: aiuta i disadattati a non mettere al mondo figli che non saprebbero come allevare e sradicando eredità maligne.
Esiste quindi un’evidente dimensione politica nell’eugenismo. La credenza nell’ereditarietà dei comportamenti sociali si fonda su un assunto di base profondamente anti-democratico: chi è privilegiato lo è a buon diritto, chi è escluso lo è per delle ragioni oggettive, essendo scadente. Questa fede secolarizzata predicava che tra gli esseri umani ci sono esemplari più riusciti di altri e l’evoluzione, analogamente alle leggi economiche coniate dal liberismo, è come una mano invisibile che premia i migliori e punisce i peggiori. Per questa ragione, al tempo delle leggi per la sterilizzazione dei cittadini “scadenti”, magnati come la famiglia Harriman, Leland Stanford, John Harvey Kellogg e John D. Rockefeller giocarono un ruolo chiave nella diffusione dell’eugenismo negli Stati Uniti, mentre la famiglia di industriali tedeschi Thyssen non fece mancare il suo appoggio agli eugenisti tedeschi (Fuschetto, 2004). Nel 1910, ossia nei primi anni della voga eugenetica moderna, il ginecologo italiano Tullio Rossi-Doria scriveva nella Nuova Antologia: “come nella spazzatura si possono trovare anche dei gioielli smarriti, così pure nella massa fluttuante dei detriti umani si possono rinvenire e risparmiare valori non disprezzabili. […] Ma, fatta questa cernita, guariti che siano i malati curabili, messi di nuovo in valore le unità umane ingiustamente disprezzate (e quest’opera è di altissima importanza) di tutto il resto non si può e non si deve tener lo stesso conto, anzi conto infinitamente maggiore, come oggi si tiene, della gran massa dei sani, dei forti, dei normali. Il danno della pietà…è questo: che essa mette al primo posto questa spazzatura dell’umanità (adopero apposta parole crude ma adatte perché bisogna assolutamente togliere alla pietà umana il suo carattere di sentimentalismo morboso) ed anche dopo eseguita la cernita, mette ogni sua opera non ad eliminare dal consorzio umano, ma a conservare proprio in mezzo alla società che vive e lavora, entro ai suoi tessuti sani, in mezzo alle correnti del suo sangue migliore, queste scorie pericolose” (cf. Mantovani, 2004, p. 108).
La dottrina eugenetica (l’eugenismo), a dispetto del suo proclamato carattere umanitario – “è in gioco il futuro dell’umanità” – è virulenta perché ispirata ad un volgare utilitarismo ed un arido consequenzialismo, ad un’idea astratta di uomo che si presta a obiettivi totalitari quando non è supportata da sincero amore per gli esseri umani in carne ed ossa. Come Victor Frankenstein, “umanista” che disprezza l’umanità del presente, preferendole quella che verrà. L’eugenetica è inseparabile dall’ossequio e la deferenza verso gli imperativi bio-politici ed esalta narrazioni tecnocratico-scientistiche come “la scienza e la tecnologia conducono ad un progresso continuo”, “la perfetta razionalità è conseguibile ed è il fondamento di ogni legittima attività decisionale”, “la scienza di per sé è neutrale, il bene e male pertengono alla sfera delle sue applicazioni”, “i valori democratici ed umanistici serviranno a correggere gli eventuali errori ed eccessi delle nuove tecnologie”. È un idealismo guidato da impulsi narcisistici: l’eugenista proietta se stesso nel futuro e poi contempla la sua situazione e quella dell’umanità domandandosi cosa sia necessario fare per cambiare le cose più rapidamente nella direzione voluta. Ma chi stabilisce quali siano i veri bisogni ed i mezzi migliori per soddisfarli? I cosiddetti esperti hanno la tendenza a credere di sapere cosa sia meglio per le persone comuni, anche meglio di loro stesse. In un’intervista, il premio Nobel Francis Crick affermava di voler vivere in un mondo in cui “il punto di vista di quelli come me è sostanzialmente condiviso dalla maggioranza delle persone” (Weintraub, 1984, p. 28). Questo è il credo centrale della mentalità inquisitoriale: ciò che non si armonizza con la verità dev’essere soppresso come un’eresia. Da questa premessa traggono origini darwinismo sociale ed eugenetica: il più adatto realizza la società ideale escludendo gli inadatti ed inefficienti, insomma la zavorra. In breve, l’eugenetica nasce da una miscela di epistemologie contradditorie – pessimismo romantico, ottimismo positivista, nostalgie arcadiche ed aspirazioni utopiche, tensioni apocalittiche e culto della soluzione tecnica integrale – che convergono in un virulento disprezzo per il presente, il tratto distintivo di chi sente di essere nato troppo presto o troppo tardi e, come nell’intuizione di Nietzsche, invece di amare il prossimo, sceglie di amare il remoto ed il futuro; invece di amare gli uomini nella loro concretezza, preferisce amare le cose, le ombre, le idee ed i fantasmi; invece di coltivare la virtù della pazienza come un medico, pretende misure estreme, come il chirurgo, che ha più fiducia nelle sue capacità d’intervento che nella costituzione del malato.
*****
Le due figure esemplari citate da Karl Brandt, il medico che era stato messo a capo del programma di eutanasia nazista, quali modelli di vita, erano Adolf Hitler ed Albert Schweitzer (Lifton 1986). Senza dubbio un curioso binomio.
Charles Darwin aveva previsto con grande lucidità quali sarebbero state conseguenze della pubblicazione di un testo, “L’origine delle specie”, che rendeva irrilevante l’esistenza stessa di Dio. In parte se ne rammaricava, in parte sentiva il dovere di giustificare con sovrabbondanza di dati ed argomentazioni ogni sua tesi, per non offrire il fianco ai critici più feroci, che certo non sarebbero mancati. D’altra parte, anche se quasi certamente aveva intuito che le sue tesi sarebbero state utilizzate per sostenere punti di vista che lui non avrebbe condiviso, forse non si aspettava il vero e proprio cultismo che la sua teoria ingenerò in giovani esistenzialmente incerti o disperati. Come avrebbe potuto immaginare reazioni di una tale intensità? “Con gli occhi e l’animo infiammati. Sembrava che tutti i problemi del cielo e della terra fossero stati risolti con semplicità e chiarezza; c’era una risposta ad ogni domanda che turbava le giovani menti. L’evoluzione era la chiave di tutto e poteva sostituire ogni altra credenza… Ero così affascinato e scosso che sentivo il bisogno di comunicare agli altri quel che avevo appreso, e questo lo feci nel cortile della scuola, ai picnic e con i miei amici” (Weikart 2004: 16). Queste sono le parole del giovane Ernst Haeckel (1834-1919), futuro biologo marino e di gran lunga il più importante divulgatore di Darwin in Germania. Esse trovano eco nei commenti dei suoi discepoli: “Ringrazio Darwin ed Haeckel per aver emancipato il mio intelletto, per avermi liberato dalle catene della schiavitù della tradizione, alle quali è avvinta gran parte degli uomini per l’intera durata della loro vita. Mi diedero la chiave per comprendere il grande e magnifico segreto della natura e dispersero dai miei occhi quella nebbia che mi impediva di vedere chiaramente il mondo” (Gasman 1971). Ecco un’altra illuminante espressione di gratitudine di un lettore di Haeckel: “In quel momento riscopersi la mia patria e la mia gente, e con esse mi liberai del giogo della confusione e della rabbia, dell’ironia di Heinrich Heine, che è un segno di debolezza interiore. Invece sorse in me una forte sensazione di ilarità e contentezza che è il dono di una fede sicura di sé stessa. Così Ernst Haeckel mi restituì la fede nel mio popolo” (Gasman, ibidem).
Il nome di Haeckel, come quello di Darwin, divenne una bandiera, la sua figura, come quella di Darwin, un idolo, un sacramento da invocare negli scontri dialettici, al di là del merito delle questioni. Persino delle suore che Haeckel incontrò durante un viaggio in treno nelle Alpi gli rivelarono che avevano imparato la teoria dell’evoluzione dal “professor Haeckel”, ignorando l’identità dell’interlocutore (Chadwick 1975). Ma che tipo di rudimenti avevano presumibilmente appreso? Il problema è che l’interpretazione dell’evoluzionismo di Haeckel, a differenza di quella di Darwin – che era tutt’altro che immune dai preconcetti dell’Inghilterra vittoriana ma dimostrava un’ammirevole comprensione per chi era diverso da lui – era pesantemente contagiata da pregiudizi molto in voga nell’Europa imperialista del tempo. Haeckel parlava apertamente di selezione razziale, di eliminazione degli inadatti, della necessaria esclusione della sessualità dall’atto procreativo, di vite umane di valore inferiore. Sosteneva anche che il libero arbitrio era un’illusione, che il liberalismo era innaturale e pernicioso, che i criminali erano cronicamente ed incorreggibilmente recidivi e che uno stato corporativo ed autoritario sarebbe stata la migliore soluzione per la Germania (Haeckel 1926; Gasman op. cit.; Stein 1988). Rudolf Virchow, uno dei grandi medici della storia tedesca nonché insegnante di Haeckel all’università, lo ammonì che il tentativo di sostituire i dogmi religiosi con una religione dell’evoluzione avrebbe sortito effetti disastrosi. Mentre Virchow rimase conscio dei limiti delle ipotesi esplicative che presentava ai colleghi per ottenerne un giudizio complessivo, Haeckel sviluppò una personale concezione della scienza e della sua missione sociale che poteva oggettivamente condurre alle rampe dei campi di sterminio (Zigman 2000).
Haeckel, e con lui troppi altri sedicenti evoluzionisti, adulterarono il pensiero di Darwin per piegarlo alle esigenze contestuali e personali (ambizione, fama, avidità, ecc.). Così l’idea di morte, anzi l’idea di sterminio, come motore dell’evoluzione, anche umana, trovarono uno spazio che Darwin non aveva e non avrebbe mai concesso. Il diritto alla vita era negato, mentre l’opportunità di sopprimere i popoli inferiori per il bene della specie umana veniva per la prima volta presa seriamente in considerazione da una fetta non minuscola dell’élite intellettuale europea e nordamericana. Il diritto naturale era rimpiazzato dalle leggi di natura e la lotta per la vita da semplice meccanismo evolutivo del mondo animale assurgeva ora a principio guida del colonialismo che legittimava ogni conquista come una guerra moralmente giusta (MacMaster 2000). Hitler altro non fece che aderire al filone più crudele dell’etica evolutiva formulata dai suoi predecessori, che disconosceva l’esistenza di criteri morali universali e quindi dei diritti fondamentali degli esseri umani. In altre parole Hitler non era un nichilista amorale, ma un leader politico che credeva fermamente che assecondare il processo evolutivo – o per meglio dire la sua personale, ma largamente condivisa, interpretazione del processo evolutivo – fosse un bene assoluto. Mentre la modernità spingeva il globo verso culture ibride, mercati interdipendenti e meticciamenti tra i popoli, ogni sua decisione fu segnata dalla necessità d’invertire questa tendenza per riprendere quello che lui riteneva fosse il corso naturale degli eventi naturali e storici: la purificazione del sangue e della cultura del Volk.
Noi non stiamo però parlando di un “male tedesco”, di un ipotetico Sonderweg nell’applicazione del Darwinismo al funzionamento dei sistemi sociali. Il biologo francese e premio nobel per la medicina nel 1913, Charles Richet, in un libro intitolato non a caso “Sélection Humaine”, professò la sua fede nell’evoluzione come processo di annientamento dei più deboli: “Una massa di carne umana senza intelligenza non è niente. Esiste della materia vivente che non è degna di alcun rispetto né di alcuna compassione. Il sopprimerla risolutamente è farle un favore”. Aggiunse poi: “Dopo l’eliminazione delle razze inferiori…sarà la volta degli anormali. […]. La selezione non potrà essere efficace a meno che non sia severa; e la severità implica l’eliminazione dei malvagi. Ma siccome i malvagi non spariranno di buon grado: ci sarà bisogno di un’autorità per eliminarli dalla società umana” (Ambroselli 1994: 43; Pichot, 1995: 13-14).
In Gran Bretagna, Francis Galton (1822 – 1911), il padre dell’eugenetica, ammise che se non aveva mai fatto alcun riferimento esplicito alla repressione delle stirpi inferiori era solo perché si trattava di un corollario implicito del programma eugenetico e chiese alle classi agiate di coltivare un sentimento di casta che li inducesse a procreare solo tra loro, in modo da non farsi contaminare dal plasma germinale degli inferiori (Kevles 1985). Il suo discepolo, Karl Pearson (1857 - 1936), nel 1909 parlò di suicidio razziale e della necessità di bloccare “i nauseabondi rivoletti che inquinano i tratti sociali più fecondi” (Kevles, ibidem). Il sociologo Benjamin Kidd (1858-1916), che pure era un Darwinista sociale ed un eugenista, commentò con disagio un discorso tenuto da Galton: “Mi ricordo bene il mio senso di sollievo per essere nato all’inizio di quest’era di relativo barbarismo…a giudicare da quel che uno sente e legge, molti tra i nostri riformatori più zelanti sarebbero pronti a metterci in camere a gas (lethal chambers) se i nostri corpi e menti non fossero conformi a certi parametri” (Galton 1904: 13).
Questo non fu un fenomeno legato all’ateismo. Alexis Carrel, premio nobel per la medicina nel 1912, era un celebre e fervente cattolico reazionario francese che nel 1935 pubblicò il famigerato bestseller “L’Homme, cet inconnu” nel quale auspicò l’avvento di una società governata da una consorteria di scienziati e raccomandò la promulgazione di leggi che autorizzassero la pena di morte in camere a gas per certi criminali recidivi (Carrel 1965). Nella prefazione all’edizione tedesca, destinata al pubblico nazista, plaudì alle energiche misure di Hitler contro criminali e malati mentali ed appoggiò preventivamente qualunque futura misura volta alla soppressione di individui giudicati pericolosi. La medicina avrebbe dovuto guidare il governo delle nazioni per via della sua interdisciplinarietà e la sua sollecitudine nei confronti dell’umanità, convincendo le giovani coppie a procreare non sulla base di una presunta identità di vedute e profondità di sentimenti, ma sulla base di un calcolo dell’utilità sanitaria. In alternativa si sarebbero resi necessari dei certificati di idoneità alla riproduzione. L’avvento del nazismo era per lui l’avvisaglia di una trasformazione integrale del modo di intendere la vita e la società. Mentre la democrazia era buona solo ad indebolire le razze nella lotta per l’esistenza, perché mancava di “quegli ideali, di quella fede ed approccio eroico alla vita che sono indispensabili”, la grande spinta mistica e millenarista che si prospettava sarebbe riuscita a fondare una nuova civiltà, se si fosse alleata con le scienze umane (Soupault 1951). Una reazione lodevolmente indignata rispetto alle deprecabili tesi di questo libro fu quella di un entomologo italiano, Alberto Mochi, che annotò in un libro-recensione intitolato provocatoriamente “Perchè l’uomo è uno sconosciuto?” (Mochi 1943) la sconcertante assenza di una metodologia scientifica nell’analisi e nell’esposizione dei fatti e la distorsione dei concetti al punto da renderli delle caricature, l’ombra delle passate utopie, la resurrezione dell’Inquisizione, questa volta sotto l’egida della scienza.
Durante la seconda guerra mondiale e dopo la scoperta dei campi di sterminio gli eugenisti compresero che i tempi non erano propizi e, per alcuni anni, tacquero. Ma quando ripresero a sostenere in pubblico le proprie tesi – e non ci volle molto tempo –, non diedero l’impressione di aver modificato sostanzialmente il tenore dei loro interventi, come se volessero ribadire che, nonostante le atrocità naziste, il programma eugenetico era ancora degno di considerazione. Così Julian Huxley, fratello dello scrittore inglese Aldous Huxley, nonché biologo e primo direttore generale nientemeno che dell’UNESCO, diede alle stampe un libro in cui non dissentiva dalle misure eugenetiche messe in campo dai Nazisti per ragioni morali, umanitarie e giuridiche. Pur riconoscendo che erano crudeli e non-scientifiche, le condannò perché, nel lungo termine, si sarebbero rivelate disgeniche, cioè controproducenti (Huxley 1947). Quanto agli strati sociali inferiori, che si riproducevano troppo celermente, la sua proposta era quella di non concedere loro un facile accesso ai servizi ospedalieri, per evitare che la rimozione dell’ultimo fattore di selezione naturale potesse rendere troppo semplice la procreazione e la sopravvivenza (Huxley, ibidem). Pochi anni dopo, A.V. Hill, premio nobel britannico per la medicina, lanciò la provocazione che, da un punto di vista biologico “se la gente si riproduce come i conigli, gli si dovrebbe permettere di morire come conigli” (Hill 1952). Molti non sarebbero d’accordo, proseguiva Hill, ma se ipotizziamo che la Terra non sia più in grado di sostenere la crescente popolazione umana e che il risultato sarà la guerra per il controllo delle risorse, non sarebbe allora più ragionevole modificare le proprie opinioni?
Nel 1963, Francis Crick, uno dei due premi Nobel per la scoperta della struttura del DNA, affermò durante un convegno che le persone non dovrebbero avere il diritto di procreare senza prima aver dimostrato di essere geneticamente idonei. La sua proposta fu che si sarebbe dovuta somministrare a tutti una sostanza chimica che rendesse temporaneamente sterili per poi assegnare l’antidoto solo ai procreatori più idonei (Wolstenholme 1963). E’ importante ricordare ai lettori che i Nazisti avevano avuto la stessa idea ed intendevano realizzarla aggiungendo un additivo chimico alla farina (Sax 2000). Alcuni anni dopo lo stesso Crick aggiunse in un’intervista che nessun neonato doveva essere considerato come un essere umano prima di passare alcuni test di idoneità che avrebbero stabilito il suo diritto a vivere (Weintraub 1984). Alfred Ploetz (1860-1940), il fondatore dell’igiene razziale tedesca, aveva già avanzato la medesima proposta circa sessant’anni prima (Pichot 2000). Un altro premio nobel, questa volta statunitense, il biologo molecolare pacifista Linus Pauling, propose che ogni bimbo portatore sano di geni deleteri fosse tatuato sulla fronte in modo che nessun potenziale partner procreativo con la medesima mutazione lo scegliesse (Kerr & Shakespeare 2002). Negli anni 60 il biologo francese Jean Rostand favoleggiava di una futura società in cui i bambini sarebbero stati dotati di un DNA standard che codificasse tratti fisici ed intellettivi desiderabili. In questo modo non sarebbero più stati la prole di una coppia ma dell’intera specie umana (Rosenfeld 1969).
Gli anni successivi sono sati tutt’altro che immuni da dichiarazioni a dir poco sorprendenti, ma sarebbe inopportuno tediare il lettore con un eccessivo numero di citazioni. Questi cinici e paternalistici scienziati sembrano convinti che la gente comune non sia veramente in grado di assumersi le proprie responsabilità, di decidere da sé come condurre la propria esistenza. Chi ha letto “Verso la libertà” (1908) di Arthur Schnitzler non avrà forse potuto evitare di richiamare alla mente le parole con le quali Berthold Stauber, medico socialista ed ebreo austriaco, si rivolge al padre dopo che questi lo ha rimproverato di non aver capito che la perizia tecnica da sola non basta a fare un grande medico, ma servono anche il buon cuore e l’amore per le persone. Berthold replica che per lui la pietà è una debolezza e che in tempi difficili non bisogna avere alcuno scrupolo nel sacrificare l’individuo se il bene comune lo richiede: “Basta pensare, padre, che la più onesta e coerente igiene sociale dovrebbe mirare a distruggere l’individuo malato, o quanto meno a isolarlo, a escluderlo dalle gioie della vita. E non nego di avere, su questo tema, diverse idee che tendono in quella direzione e che sulle prime potrebbero sembrare crudeli. Ma il futuro, io penso, appartiene alle idee. Non devi temere che comincerò subito a predicare l’assassinio dei malati e dei superflui. Ma teoricamente questa è la meta verso cui tende il mio programma”. Le analogie tra il dialogo di Schnitzler ed una lettera che Ernst Haeckel scrisse al padre qualche anno prima sono davvero impressionanti: “Io condivido essenzialmente la tua visione della vita, padre, ma semplicemente do meno valore alla vita umana ed agli umani di quello che dai tu…L’individuo e la sua esistenza personale mi appaiono come un’unità transitoria di questa grande catena, come un vapore che presto si disperde…L’esistenza degli individui mi sembra così orribilmente miserabile, dozzinale, e senza valore che pare nata per essere distrutta” (Weikart 2002).
Un vivo interesse per gli esseri umani reali e non per l’umanità in senso astratto non sembra un obiettivo di agevole conseguimento per certi scienziati anche di primo piano. D’altra parte i temi morali, come suggerisce Maclean (1993) non sono né astratti né intellettuali e per questo una mente educata nelle torri d’avorio dell’accademia non è necessariamente la più indicata a fare chiarezza sui punti più controversi. Anche quando l’intento è dei più benevoli, l’esito può essere sconfortante. Gli atteggiamenti anti-umanistici che abbiamo passato in rassegna non sono mai stati limitati alle cosiddette “scienze dure”. Questi stessi sentimenti hanno lacerato la storia delle scienze sociali. Comportamentismo, materialismo, strutturalismo, funzionalismo, teoria dei sistemi, sociobiologia, psicologia evolutiva sono discipline accomunate dalla tendenza a ripudiare il soggetto umano o a recepirlo in un senso essenzialmente strumentale (Morris 1985; Rasmussen 1996). Senza chiamare in causa motivazioni teologiche, il mero buon senso dovrebbe suggerire che se la vita umana non ha un valore intrinseco non si capisce come gli esseri umani possano conferire un valore a qualsivoglia altra cosa (Teichman 2001). Questo è il principio umanistico che si erge come un baluardo contro la ripugnanza per ciò che è mediocre, inferiore, diverso e casuale, e verso l’imprevedibilità, l’arbitrarietà, l’incertezza e l’incostanza dell’umana esistenza.

LINK UTILI:

Nessun commento: