venerdì 21 ottobre 2011

L’eroe libertario


Dedicato a Maruyama Masao (1914-1996)

"Supponi che fra tutti questi uomini non desiderosi che di sordidi beni materiali se ne sia trovato anche uno solo come il mio vecchio inquisitore, che abbia mangiato anche lui radici nel deserto e si sia accanito a domare la propria carne per rendersi libero e perfetto, ma che però abbia in tutta la sua vita amato l’umanità: a un tratto ha aperto gli occhi e ha veduto che non è una gran felicità morale raggiungere la perfezione del volere, per doversi in pari tempo convincere che milioni di altre creature di Dio sono rimaste imperfette, che esse non saranno mai in grado di servirsi della loro libertà, che dai miseri ribelli non usciranno mai dei giganti per condurre a compimento la torre, che non per simili paperotti il grande idealista ha sognato la sua armonia... Dopo aver compreso tutto ciò, egli è tornato indietro e si è unito... alle persone intelligenti".
Il “Grande inquisitore”, Fëdor Dostoevskij

"Quella di Lenin è una vasta, terribile esperienza in corpore vili. Lenin è un artista che ha lavorato gli uomini, come altri artisti lavorano il marmo e i metalli. Ma gli uomini sono più duri del macigno e meno malleabili del ferro. Il capolavoro non c’è. L’artista ha fallito. Il compito era superiore alle sue forze".
Benito Mussolini


Abstract
Geert Wilders’, Jörg Haider’s and Heinz-Christian Strache’s Freedom parties, Silvio Berlusconi’s Popolo delle Libertà, the would-be “European Freedom Party”, George Bush’s “Freedom Agenda”. What is it about liberty that populists find so appealing? Their ideological posture has nothing to do with genuine liberalism. As Samuel Freeman has forcefully and eloquently stated, liberalism historically defined itself against libertarianism, which closely resembles «the doctrine of private political power that underlies feudalism». Like feudalism, libertarianism relies on «a network of private contracts» and opposes the liberal idea that «political power is a public power, to be impartially exercised for the common good» (Freeman 2002). The essence of libertarian populism lies in its pursuit of parochial, petty bourgeois, free market selfishness, that is, in unaccountable private tyranny. The libertarian leader is typically perceived as a brave and unflinching hero. He (sic!) is a populist star who promises to banish fears and address the most pressing issues and needs of the community, his will shaping the will of the people, the general will absorbing all individual wills. Liberal democracy is too unheroic, unglamorous, indeed all too human for him.

Parole chiave: eroe, liberalismo, libertarismo, populismo, kamikaze.

Introduzione
Chi non ha notato che gli eroi maschili delle fiabe e dei film sono quasi sempre belli (e virili), buoni e sinceri? Sono giusti e sono nel giusto. La funzione dell’eroe nella mitologia e nell’arte (anche in quella minore, come è il caso del film di Zack Snyder) è quella di permettere allo spettatore e fruitore di gettare le basi per un’immedesimazione spontanea. Così, mentre in passato il “consumo” del mito nella sua forma più articolata e pregna di simbologie e rimandi era spesso limitata ad un’élite, al giorno d’oggi la società di massa ha imposto una radicale revisione dei tratti salienti dell’eroe e del supereroe. Non più virtualmente onnipotente, il supereroe dei tempi moderni deve mostrare le sue debolezze, paure ed incertezze per poter realmente attivare il processo di identificazione da parte dell’uomo comune. Come i supereroi del passato, quelli del presente fungono ancora da modelli di vita e catalizzatori ritualistici, e forse persino archetipici, delle ansie e delle aspirazioni di tutti noi, ma sono anche profondamente diversi, lo specchio di una civiltà intossicata dal compito di comprendere se stessa, la direzione che ha preso ed il senso stesso del suo evolvere. In questo senso la società moderna nella sua interezza sembra soffrire di un “complesso di Gulliver” collettivo che dovrebbe compensare l’intimo disagio di sentirsi inadeguati (complesso di inferiorità) rispetto alle grandiose aspettative che coltiviamo sin dalla più tenera età.


La funzione dell’eroe libertario nella mitologia, nell’epica e nella letteratura è quella di rivelare all’umanità le sue potenzialità, la possibilità di varcare i consueti limiti imposti dalla tradizione e dalla corporeità per operare nobilmente o ignominiosamente. È colui che riesce a completare quello che noi non ci sentiamo in grado di fare. È colui che viola norme e tabù in nostra vece, ma non è mai un rivoluzionario. Dotato di poteri eccezionali, potrebbe e dovrebbe risolvere tutti i più drammatici problemi del mondo. Tuttavia, in piena sintonia con il credo libertario, non attenta mai ai fondamenti della società tradizionale, come invece ritengono sia doveroso fare icone libertarie di più facile presa negli ambienti culturali di sinistra, quali Gesù, Ernesto Che Guevara, Martin Luther King Jr., Zorro, eccetera. E poi, a metà del guado, in un punto intermedio tra i due estremi, c’è il buon soldato Švejk, tanto amato da Alexander Langer, parto della mente lucida ed anticonformista di Jaroslav Hasek, che un giorno scrisse al suo amico, lo scrittore anarchico Michal Mareš, che “a questo mondo si può essere liberi solo se si è idioti”. Hasek era tutto fuorché un allocco e infatti nel corso della sua pur breve esistenza, lui che era un anarchico pacifista e progressista, divenne un bolscevico reclutatore per l’Armata Rossa e poi un attivista militante e propagandista del nazionalismo ceco. Nelle parole dello storico e filosofo Hans Kohn: “L’individualismo anarchico trova il suo complemento nella comunità totale” (Kohn, 1965, p. 51). Un ulteriore ammonimento a non confondere la libertà democratica con la libertà dell’elitismo radicale reazionario.



L’eroe libertario in Europa
Il popolo italiano, gridiamolo a tutta voce, non si sentì mai, come sotto il regime fascista, più libero e franco...gli italiani non si sentirono mai più di ora liberi innanzi al dovere, liberi innanzi al destino, liberi innanzi alla morte.
Giuseppe Maggiore

In linea generale, la differenza tra il libertarismo di destra e quello di sinistra (meglio noto come liberalismo) consiste nell’avversione del primo nei confronti dell’intervento governativo nell’economia e nel favore con il quale invece accoglie la difesa dei valori tradizionali da parte della società. Il liberalismo invece approva l’intervento statale nell’economia al fine di consentire ad un crescente numero di cittadini di porre in essere i propri progetti di vita, nella prospettiva della loro emancipazione – per quel che è lecito attendersi – dall’assistenza delle istituzioni, mentre condanna le intrusioni non richieste nella sfera privata. Questo dualismo era già evidente nel periodo tra le due guerre, quando la destra autoritaria promuoveva programmi di governo conservatori a livello culturale e liberisti a livello economico-fiscale (Soucy, 1995; Bobbio, 2008). Così, scrivendo sul Popolo d’Italia, nel 1921 Benito Mussolini asseriva che “lo stato deve esercitare tutti i controlli possibili immaginabili, ma deve rinunciare ad ogni forma di gestione economica. Non è affar suo. Anche i servizi cosiddetti pubblici devono essere sottratti al monopolio statale” (cf. Sternhell, 2008, p. 315). L’idea di base era quella di adempiere il dovere storico di salvare la presunta armonia delle società tradizionali nel corso della transizione verso un’economia globalizzata, ossia di dar vita ad un “capitalismo Gemeinschaft”, laddove per Gemeinschaft si intende un modello di società organico e quindi naturale, caratterizzato da omogeneità, coesione, armonia, obiettivi comuni collettivamente determinati e legami emotivi. Si tratta di una società tendenzialmente autarchica e fondata sul concetto tradizionale di onore (maschile), che presuppone l’assenza di un governo centrale che medi tra le parti e quindi la necessità di affidarsi alle proprie forze per difendere i propri interessi ed il proprio buon nome. Uno dei grandi problemi della transizione verso la modernità fu proprio l’incapacità da parte di molti di affrontare le conseguenze per la propria autostima di una crescente enfasi sull’individualità e sul microcosmo interiore, che si configurava come un enorme fardello esistenziale, il fardello dell’eroe libertario.
Gli eroi maschili delle fiabe e dei film sono quasi sempre belli (e virili) e sono nel giusto. Sono figure messianiche e pastorali che intervengono nel momento in cui si palesa l’incapacità degli esseri umani di ordinare il mondo. L’eroe non è mai realmente integrato nella società umana, per via dei suoi straordinari poteri, per via dei suoi nobili natali (è spesso un semidio) e per via del senso di frustrazione che percepisce ogni volta che si trova ad osservare l’inettitudine umana. La mera sopravvivenza del genere umano comporta la distruzione del pianeta o comunque la crescita dell’entropia cosmica, per questo l’eroe si trova nella scomoda posizione di chi è tenuto a servire chi vorrebbe comandare. Per questo egli tende a sovvertire le leggi e le norme di condotta umane, mediocri come chi le ha ideate, rimpiazzandole con le proprie, inevitabilmente più ispirate, se necessario anche con la violenza e la tirannide. La funzione dell’eroe nella mitologia e nell’arte è quella di permettere allo spettatore e fruitore di gettare le basi per un’immedesimazione spontanea. Così, mentre in passato il “consumo” del mito nella sua forma più articolata e pregna di simbologie e rimandi era spesso limitato ad un’élite, nella società dei consumi di massa questo non è più così vero. La società moderna nella sua interezza ha cominciato a soffrire di una sorta di “complesso di Gulliver” collettivo che dovrebbe compensare l’intimo disagio di sentirsi inadeguati (complesso di inferiorità) rispetto alle grandiose aspettative di ordine e progresso caratteristiche della modernità.
Questo processo è emerso con forza proprio in coincidenza con la massima espansione imperialistica europea, che non impedì peraltro il verificarsi di una serie di crisi economiche e stagnazioni durante la seconda metà del diciannovesimo secolo e la prima metà del ventesimo. Questo periodo fu caratterizzato dal sorgere di una corrente di pensiero, il radicalismo reazionario, che mirava a portare a termine una revisione completa dei valori cardine dell’umanesimo e del progressismo illuminista e che è all’origine del libertarismo di destra. La modernità rese possibile riformulare il concetto di natura umana, cosicché il suo rimodellamento e miglioramento (per venire incontro alle accresciute aspettative della società) non parve più mera utopia, ma quasi una necessità. Immaginare una nuova umanità significava anche cercare di comprendere che cosa l’avrebbe resa tale e quale mondo e quale società sarebbero stati in grado di accoglierla. I pensatori che, in modi e tempi diversi, si identificarono con il modernismo reazionario e con la sua antropologia pessimistica – che accentuava la tendenza a leggere la storia in chiave naturalistica – negarono il principio dell’uguaglianza degli individui; essi, in quanto diversi per natura, non potevano essere messi sullo stesso piano degli altri. Alcuni individui erano più intelligenti e più padroni di sé stessi e del proprio “mondo di vita” rispetto al resto della massa irrazionale e conformista, dominata dalle passioni ed incapace di comprendere da sé il buono, il vero ed il giusto. Al contrario gli eletti, i più talentuosi, l’aristocrazia dell’intelletto, per intenderci, essendo consapevoli di questo scarto incolmabile, stabilirono che la folla necessitava di guida, di autorità e gerarchie ben definite, ossia di un governo pastorale, per usare una definizione di Michel Foucault. Questa guida illuminata, questo indispensabile salvatore messianico, il lungimirante “Grande Uomo” di Thomas Carlyle che modella la società a sua immagine e somiglianza, avrebbe trasferito la lotta darwiniana per la supremazia e l’eccellenza dal piano del conflitto di classe a quello del conflitto tra nazioni (fascismo) e tra razze (nazismo), eliminando l’idea stessa di democrazia, causa prima dell’irruzione sulla scena del mondo della plebe volgare e dei suoi gusti dozzinali.
Il filosofo tedesco Friederich Nietzsche (1844-1900) fu tra coloro i quali scelsero di raccogliere la sfida della modernità e di perseguirne la logica fino alle conclusioni più sgradevoli. Egli si pose l’obiettivo di determinare quali approcci filosofici e sistemi morali sarebbero stati più o meno vantaggiosi per il prosperare della vita. Si badi bene, della “vita”, non dell’”umanità” nel suo complesso. Nietzsche, come Schopenhauer, era fondamentalmente un misantropo e come tale la sua antropologia non poteva che essere negativa. Lui stesso dichiarò in diverse occasioni che ben più importante dell’amore per il prossimo era l’amore per ciò che è remoto e futuro e che in lui l’amore per le cose e le idee eccedeva quello per l’essere umano. Nietzsche è famoso per la sua perorazione della causa del Superuomo. La visione superomistica era la sua risposta all’incedere del nichilismo nella modernità scettica, cinica e disillusa. La moralità del Superuomo era quella idealistica e sprezzante del signore e padrone ed andava contrapposta alla moralità utilitaristica dello “schiavo”, l’uomo debole e codardo destinato a rimanere succube del signore una volta che questi avesse preso coscienza della sua condizione di superiorità. La moralità dello schiavo – che per Nietzsche si identificava con quella cristiana, socialista e liberal-democratica – giudicava malvagio tutto ciò che era nell’interesse del Signore che, invece, avrebbe dovuto adottare se stesso ed il suo volere come supremo parametro etico, pronto a sacrificare gli altri nel perseguimento dei propri interessi, senza sentirsi in alcun modo in colpa. L’umanitarismo, la pazienza e la tolleranza, virtù predicate dallo schiavo come strategie di sopravvivenza ed espressione del risentimento del debole nei confronti del forte, erano solo d’intralcio alla superiore volontà dell’Uomo Padrone. Quelle della moralità dello schiavo erano dunque virtù negative, piuttosto che positive come quelle che informavano l’azione del Superuomo, ed il movimento liberal-democratico era solo un’altra forma di decadenza dell’organizzazione politica che sminuiva, svalutava e rendeva mediocre l’umanità. Questo Superuomo non era una figura chiaramente definita. Nietzsche sembrava volerne preparare l’avvento. Lui stesso affermava di scrivere per una specie d’uomo che doveva ancora nascere. In breve il Superuomo fu il parto delle fantasie di una classe privilegiata che si sentiva minacciata dalla concessione del suffragio universale e sognava un sistema istituzionale che ricreasse almeno in parte il sistema di rapporti semi-feudali pre-esistente. Una società mascolina e militante che rigenerasse e ringiovanisse l’umanità attraverso una cultura più autentica e vitale. Il risultato finale sarebbe stato, sempre secondo Nietzsche, che come la scimmia per l’uomo è oggetto di scherno o di doloroso imbarazzo, così l’uomo sarebbe stato trattato dal Superuomo, perché ogni miglioramento del tipo “uomo” è sempre stato e sempre sarà il prodotto di una società e di una mentalità aristocratica, che crede in un scala gerarchica lungo la quale i vari tipi umani sono ordinati per valore decrescente.
Questo radicalismo aristocratico ( ) non era tuttavia una peculiarità del pensiero di Nietzsche la filosofia del quale va compresa nel contesto di un diffuso e profondo antiumanesimo intellettuale. L’eminente critico letterario britannico John Carey (Carey, 1992) ( ) sostiene che diversi giganti dell’intelletto del diciannovesimo secolo avevano sviluppato una vera e propria fobia nei confronti del popolino – e specialmente delle donne –, colpevole di avere gusti ed abitudini prosaiche e volgari, di essere impulsivo, estremamente suggestionabile, emotivo, irrazionale, incostante, irritabile, non particolarmente portato al pensiero astratto. Analogamente, Ralph Waldo Emerson (1803-1882), uno scrittore e poeta che rappresenta per la cultura americana quel che Leopardi rappresenta per la cultura italiana, scriveva nel suo “Representative Men”: “Si legga il linguaggio altezzoso con cui Platone e i suoi seguaci si rivolgevano a tutti gli uomini che non erano devoti alle loro brillanti astrazioni: gli altri uomini sono ratti e topi. La classe dei letterati è generalmente orgogliosa ed esclusiva. La corrispondenza tra Pope e Swift descrive l’umanità che li circonda come dei mostri; e quella tra Goethe e Schiller, ai nostri tempi, non è molto più benevola”. Il risultato delle speculazioni di chi amava più le idee delle persone fu che la sterilizzazione e persino l’annichilimento di parte di questa massa improvvisamente proiettata sul palcoscenico della Storia non rappresentavano il desiderio di pochi paranoici, purtroppo. D.H. Lawrence confidò nel 1908 che se fosse stato per lui avrebbe fatto costruire una stanza della morte (lethal chamber) grande come il Crystal Palace. Carey osserva amaramente che, per diversi aspetti, il Mein Kampf non deviò poi molto dall’ortodossia intellettuale europea del tempo.
L’egocentrico Benito Mussolini si lasciò deliberatamente conquistare dal fascino del Superuomo, al punto da credere di rappresentarne l’incarnazione terrena, pioniere e messaggero di un’umanità futura, palingeneticamente rigenerata e superiore. Mentre “la società borghese ha creato l’uomo macchina, l’uomo funzionario, l’uomo orologiaio, l’uomo regola. Io sogno l’uomo eccezione” (Gentile, 1996: p. 65). Mussolini definisce il Superuomo un “inno alla vita – alla vita vissuta con tutte le energie in una tensione continua verso qualche cosa di più alto, di più fino, di più tentatore” (Gentile, 1996: p. 35). Tuttavia il libertarismo mussoliniano, come quello futurista, non poteva che tradursi nell’autoritarismo più sfrenato, perché le libere decisioni dell’individuo eccezionale dovevano per definizione essere vincolanti per tutti gli altri, anche quelli che non sapevano cogliere la presunta sagacia e lucidità del Duce. L’intolleranza più feroce nei confronti degli oppositori è infatti il tratto caratterizzante del libertarismo di destra che usa l’appello alla libertà per giustificare il diritto del forte di intimidire il debole, l’incerto, o l’avversario. Per questo il motto di questa dottrina dovrebbe essere: “Sono libero di fare quel che ritengo giusto e vantaggioso, e voi siete liberi di fare quel che ritengo giusto e vantaggioso”.
La società libertaria trovò la sua piena realizzazione in California durante la corsa all’oro, quando centinaia di migliaia di cercatori d’oro e commercianti provenienti da tutto il mondo si riversarono in California, la nuova Terra Promessa. Molti di loro erano uomini che avevano lasciato le mogli a casa e che quindi costruirono una società completamente diversa dalle altre. Quasi interamente maschile (97 per cento di uomini), la violenza ed il sopruso erano parte della quotidianità, specialmente nei confronti delle minoranze etnico-razziali. Circa 4000 su alcune decine di migliaia di cercatori d’oro furono uccisi violentemente.
L’ideologia della frontiera americana privilegia la libertà, l’individualismo, l’autarchia, l’autogoverno, la violenza “legittima”, l’anti-intellettualismo, il vigilantismo, il paternalismo, una religiosità emozionale ed un’etica familista. La libertà, appunto, è il fondamento di questa ideologia: libertà dalle gerarchie ecclesiastiche tradizionali, libertà dalla regolamentazione del mercato e libertà dal governo centrale e dalle indicazioni e prescrizioni degli esperti. L’invocazione della volontà popolare altro non è che una netta presa di posizione contro le élite del sapere, la democrazia liberale e, più in generale, la necessità di esaminare le questioni più spinose da molteplici punti di vista, tenendo aperti diversi percorsi esplicativi e rifuggendo dalle conclusioni affrettate. È una libertà populista, la libertà di poter agire come se la realtà fosse assai meno complessa di quel che appare o di quel che altri vorrebbero far credere. E’ la libertà che gode la gente comune di ritenersi immune dalle “balorde astrusità” della torre d’avorio e di poter attingere senza intermediari e senza soverchie difficoltà alla sorgente del buon senso e quindi della verità. E’ la libertà, infine, di poter credere che il troppo pensare e l’eccessivo sapere sviino la mente e lo spirito, facendoli deviare dal retto pensare e dal retto sentire – ritenuti frutto di una rivelazione che resiste alle interpretazioni razionali – e spingendo le persone verso l’infelicità e la cronica insubordinazione che, così si sostiene, sempre s’associano alla perenne incertezza del relativismo etico.
Fu in questo contesto che emerse la figura, profondamente misogina, asociale e reazionaria, del giustiziere solitario redentore che, dotato di straordinaria integrità morale, lealtà, coraggio, valore, determinazione e chiarezza d’intenti, tralascia le strade diplomatiche ed assume temporaneamente un potere assoluto di vita e di morte per rimettere a posto le cose in una piccola comunità minacciata dai malvagi, che saranno alla fine puniti. In questa tradizione narrativa un “vigilantismo” unilaterale e senza regole si trasforma nella più pura espressione della tutela della legge e dell’ordine in assenza di un governo democraticamente eletto. Il virile maschio bianco libertario, novello eroe omerico che si cura più dei compagni d’arme, della gloria, degli dèi e della propria gente che delle gerarchie e delle leggi umane, diviene l’incarnazione della legge e della giustizia e, laddove lo stato c’è, come nel contesto urbano, le sue azioni si contrappongono in modo stridente alle disposizioni ufficiali. Come detto, non è un rivoluzionario, non cerca di cambiare le cose per renderle più in linea con le sue aspettative. Piuttosto che rigettare una struttura sociale che gli può comunque far comodo, si impegna a far sì che sia la gente a lasciarsi convincere che il suo modo di vedere le cose è quello giusto, con le buone o con le cattive. Il manicheismo della sua visione del mondo è sconfinato: solo lui ha ben chiaro in mente cosa impedisca alla società di evolvere naturalmente nella direzione da lui auspicata, solo lui e pochi altri sono realmente in grado di gestire la libertà personale e quindi si meritano di esercitarla. In fondo quel che l’eroe libertario cerca è un universo nel quale agire come un demiurgo. Il suo desiderio infantile è quello di sostituire la sua autorità a quella di un governo che ne limita le ambizioni. Per questo molto spesso l’eroe solitario si sente particolarmente a suo agio nel ruolo di tiranno.

L’eroe libertario in Asia
Io sono liberale nel senso economico del termine…Il termine americano “liberale” significa qualcuno che pensa che si dovrebbe permettere a tutti di svilupparsi a proprio piacimento e fare quel che gli pare
Lee Kuan Yew (ex primo ministro e deus ex machina di Singapore)

Possiamo certamente provare ad enunciare i tratti costitutivi del libertarismo di destra. Tra questi dovremmo includere un atteggiamento aggressivo e predatorio nei confronti del prossimo e dell’ambiente, il pessimismo antropologico, l’egotismo narcisistico, la tendenza ad agire ai limiti delle proprie possibilità (e talora oltre) ed un’inestirpabile insoddisfazione di fondo, unita all’invidia nei confronti dei successi altrui. È il “perdente radicale” di Hans Magnus Enzensberger. Nessuna democrazia potrebbe sopravvivere se questa mentalità divenisse maggioritaria, perchè il libertario/liberista non si fida del prossimo. Quando non può governare l’altrui esistenza, si limita a trasformare gli altri in mezzi utili a perseguire i suoi fini. Questo perché secondo lui l’ordine sociale esistente è lo specchio dei talenti innati dei singoli e quindi gli interessi ed i sentimenti altrui hanno meno valore dei suoi, emanazioni di un intelletto e di una personalità superiori. E’ facile capire come queste propensioni possano condurre all’autoritarismo, mentre è più arduo comprendere come possono indurre all’atomizzazione dell’individuo che non riesce a raggiungere un posto di comando.
Un caso esemplare, a mio avviso, è quello dei tokubetsu kōgeki tai (“unità d'attacco speciale”), o tokkotai, noti in occidente come kamikaze. Molti di loro rappresentavano la crema della futura intelligentsia giapponese, destinati ad assumere le leve del potere nel dopoguerra. La lettura dei loro diari e corrispondenze rivela una forte passione libertaria associata ad uno smaccato elitismo: sono diversi dagli altri giapponesi in quanto superiori per intelletto e per ceto. Per questo, inizialmente, guardano all’ondata patriottica che attraversa il Giappone come ad una malattia delle masse dalla quale loro rimarranno immuni. Eppure, alcuni anni dopo, si presentano volontari per il supremo sacrificio. Perché? Alcuni scrivono che la loro è una reazione all’egoismo disincantato così tipico della modernità – e citano Marx, Albert Schweitzer, Socrate e gli intellettuali conservatori giapponesi – ma sono spesso gli stessi che inveiscono contro il popolino imbelle e contro i propri genitori quando questi si lamentano che se si sono sacrificati per allevarli non era certo per vederli morire giovani in una guerra ormai persa. È probabile che la molla principale fosse l’ammirazione nei confronti di chi si era già sacrificato per proteggere la patria, la famiglia e la popolazione che li acclamava come degli eroi. È il senso dell’onore e dell’integrità, dell’autenticità e del dovere associato al proprio status di futuro leader della nazione, incorrotto dalle tentazioni moderne, che li spinge verso un idealismo suicida, assieme all’ambizione, al narcisismo, al desiderio di immortalità (Ohnuki-Tierney, 2006). Il ricorrere di riferimenti ai codici di condotta guerrieri del bushido e del kikotsu ed alle “virtù mascoline” sembra indicare che il loro spirito libertario fosse imprigionato nelle norme di comportamento del cameratismo e dell’eroismo. Il proprio asservimento alle esigenze della patria e dei Giapponesi diventava un modo di trascendere la vita e la morte. Il 21 marzo del 1944, Hayashi Tadao descrive alla sua compagna le sue sensazioni come segue: “Io sono io, eppure non sono più io…ti amo, ma al momento il mio amore si deve estendere fino ad incorporare il Giappone ed i Giapponesi” (op. cit., p. 119). Nello stesso spirito, Yasuo Ichishima (1922-1945) scrive: “Ora io sono io, e tuttavia non sono io. Forse quel che realmente sono è l’insieme delle preghiere di cento milioni di persone. E devo essere un uomo all’altezza” (NSGKK, 2000, p. 225). La fusione dell’io nell’Assoluto Collettivo è una delle strategie messe in opera dal governo giapponese per facilitare il reclutamento di nuovi coscritti. Un intellettuale del tempo, Junji Takashima, spiegava agli studenti che per vivere un’esistenza degna di questo nome, una persona doveva capire che la propria vita doveva essere intesa come un’esistenza autocosciente (jikaku-teki sonzai) e che l’unico modo per elevarla al più alto valore possibile era quello di ricondurla a quella che già possiede un valore assoluto, cioè quella di una persona sacra come l’imperatore (TGJSGSHJ, 2005). E così Tadanobu Yamanaka (1922-1944) rivela di avvertire una sensazione estremamente spiacevole: “Mi sento come se Io, l’Ego, stesse svanendo integralmente nel movimento della storia, un movimento che è sorprendentemente vasto ed incommensurabile” (NSGKK, 2000, p. 175). Mentre Kiyoshi Takeda (1922-1945) si chiede “come farà questo mio Ego a sopravvivere – non semplicemente come un compromesso o una menzogna bella e buona, ma in un senso vero e genuino?...Non è forse questo il momento di porgere una mano per soccorrere l’Ego, l’immagine dell’Io che se n’è andata alla deriva?” (NSGKK, 2000, p. 183).
Ciò nondimeno questi nobili intenti si disperdono nell’inno alla libertà della patria, che sovrasta anche il personale scetticismo nei confronti del militarismo giapponese e nel culto titanista dell’estetica della morte. Come i samurai, i tokkotai, curavano maniacalmente ogni dettaglio del loro aspetto fisico in previsione della missione finale, inclusa la dentatura, che doveva essere perfetta. Si cospargevano di profumo e si truccavano, seguendo le istruzioni contenute nei manuali del bushido: “Perché si deve essere belli anche nella morte”. Yokota Yutaka, un volontario che non riuscì ad immolarsi a causa della fine della guerra ricorda: “Ci esercitavamo a fondo perché assegnavamo un enorme valore alle nostre vite. […]. Si dice che il bushido sia la ricerca di un posto in cui morire; ebbene, questo era il nostro fervido desiderio: un posto in cui morire per la patria. Ero felice di essere nato maschio. Un uomo del Giappone. Non mi interessa se ciò mi fa sembrare egotista, è quello che sentivo a quel tempo. La patria era nelle mie mani….eravamo uomini, eravamo vanitosi. […]. Volevamo che ci esaltassero una volta morti, tanto quanto lo desideravamo in vita. Volevi che la gente dicesse: “Yokota era giovane, ma se n’è andato con incredibile audacia, con dignità, fino alla fine” (Cook & Cook, 1992, p. 308-310).
È interessante notare come la figura dell’eroe del filone romantico giapponese non si discostasse molto da quella caratteristica della cultura romantica tedesca, imbevuta di mitologia nordica. Anche in Giappone l’eroe faceva sua una visione del mondo in cui il destino ed il fato erano programmi installati in ciascun individuo fin dalla nascita: l’eroe era libero nella misura in cui realizzava attivamente l’impresa per la quale era predestinato e sceglieva di cancellare la linea di separazione tra personale e sovrapersonale, accettando con dignità l’insolubilità dei suoi legami clanici ed etnici, che risalivano genealogicamente fino a tempi immemorabili e che per questo erano inviolabili. Nelle epopee nordiche, come in quelle nipponiche i protagonisti si vedevano da fuori, con gli occhi del loro gruppo di appartenenza. Come ci fa lucidamente notare il medievalista Aaron Gurevich (Gurevich 1995), c’è un senso di determinismo globale nella letteratura epica germanica, il senso dell’inevitabilità delle azioni e dei loro esiti, di un mondo in cui il fato non è cieco, ossia la quintessenza dell’ethos calvinista. Anche la mitologia greca offre numerosi esempi di eroi che dichiarano di essere nati per compiere un destino preordinato e per difendere il proprio nome, la propria reputazione. Nelle saghe nordiche come nelle epopee greche è arduo incontrare eroi che disobbediscano al mandato divino o alle leggi della propria città per salvare la vita di una comunità (MacEwen, 2006). L’eroe greco, quello germanico e quello giapponese non possono fare a meno di misurare il proprio valore in funzione del soddisfacimento delle prerogative associate al proprio status e lignaggio, oltre che del conseguimento della gloria personale. Questi stessi motivi riaffiorano nelle testimonianze dei giovani volontari o coscritti giapponesi. Tradizionalmente, almeno fin dai tempi di Edo-Tokugawa (1603-1853) la responsabilità di certi gravi reati non era personale ma clanica e si estendeva verticalmente ed orizzontalmente per cinque generazioni e cinque gradi di parentela. Questa norma venne recuperata dalle autorità militari al tempo della guerra del Pacifico e, assieme ad una generosa dose di patriottismo e nazionalismo ed alla nazionalizzazione delle istituzioni religiose (Kokka Shintō), essa sostenne la religione civile della Gemeinschaft giapponese. Quest’ultima, dilatando l’identità dei singoli fino a farle inglobare il paesaggio, la tradizione, la nazione, cioè il passato, presente e futuro del Giappone, inebriò i cuori ed obnubilò le menti di milioni di giapponesi, facendoli sentire parte di un grande organismo vivente, fino al momento della sua dissoluzione e della proclamazione dell’umanità dell’imperatore, che li rese simbolicamente e spiritualmente orfani, spaesati e disorientati. Il fatalismo che dominava la società giapponese del tempo risulta evidente nelle osservazioni di Yoichi Yanagida (1919-1942): “Un qualcosa di indeterminato circonda il mio corpo come un vortice, mi spinge in alto verso il mondo dell’ignoto…chi mantiene la storia in movimento? È come essere sballottati dai marosi” (NSGKK, 2000, p. 41); e di Kōzu Naoji, un altro volontario suicida: “Percepii un qualcosa di più vasto del potere di un essere umano che mi scrutava torvo. Persi il controllo della ragione e delle emozioni. Ero confuso. Sentii che mi ero trasformato in qualcosa di non più umano…che ora sapevo perché noi esseri umani non potevamo più controllare il nostro destino” (Cook & Cook, 1992, p. 316). Questi sentimenti si trovano in evidente antitesi rispetto al credo democratico, che predilige una cittadinanza consapevole, fatta di individui che si associano liberamente per determinare consapevolmente il proprio futuro invece di sottomettersi passivamente alle forze del fato. Ma queste stesse inclinazioni sono perfettamente compatibili con il buddismo giapponese, che insegna il culto dell’individualità e della personalità forte del maestro zen, il modello di “io ideale” (Super-Io) della massa che vi si annulla dopo averlo incaricato di guidarla senza mettere a repentaglio lo status quo (Arena, 2008).

Conclusioni
I supereroi del fumetto, trasposizione moderna dei giganti mitologici, hanno mantenuto molte delle caratteristiche degli eroi classici. La loro popolarità certamente dipende dall’emergere di un clima culturale favorevole, di un terreno fertile nel quale la figura del supereroe può crescere rigogliosa. La modernità, con la sua forza propulsiva e la sua missione efficientista e colonialista – dello spazio come del tempo –, rappresenta appunto l’habitat ideale del supereroe e dell’Uomo Forte in politica, l’Action Hero, il populista libertario che mescola virilismo e decisionismo e promette realizzazioni epocali e soluzioni definitive per i problemi cronici della società contemporanea. La modernità è l’era dei grattacieli, che fondono l’eterno anelito antigravitazionale dell’umanità, proiettata verso il cielo, verso altri mondi e verso la liberazione dalla costringente morfologia umana, e l’ethos gigantista e produttivista del capitalismo globalizzato. La modernità, al verificarsi di uno stato di necessità, è anche l’era della sospensione selettiva delle ordinarie considerazioni morali e della coscienza critica. Man mano che, con l’avanzare del processo di globalizzazione, cresce l’importanza di ciò che è in gioco e la complessità del “gioco” stesso e delle sue regole, le persone sentono l’esigenza di rivolgersi a figure in grado di assumersi immani responsabilità per poter mantenere il sistema sociale in condizioni di operare. Naturalmente ciò può comportare la disponibilità a piegare la legalità in nome di un più o meno nobile obiettivo. Novello sciamano, il compito del supereroe non è quello di ristabilire la legge, ma di impedire ai mostri, al Male, di invadere e distruggere la metropoli, la comunità, la nazione, in una parola, Cosmopolis, l’Ordine che trionfa sul caos della natura, o della globalizzazione corporativa, che rappresenta la più recente incarnazione del Male. In altre parole la rievocazione del mito del gigante paterno e paternalista, salvifico e autoritario quanto basta, guida spirituale di una società confusa, tocca alcune corde sensibili nella porzione adolescenziale, irresponsabile, anarcoide ed a tratti isterica del nostro inconscio di membri della società del benessere. Non si fatica a capire dove possa condurre questa strada, in circostanze storiche diverse e più drammatiche: all’inversione del progetto della modernità illuminista e liberal-socialista. Proprio come rimarcava lo Šigalev de “I Demoni”: «Mi sono imbrogliato tra i miei propri dati, e la mia conclusione è in diretta contraddizione con l’idea iniziale da cui parto. Partendo da un’assoluta libertà, concludo con un assoluto dispotismo».

LINK UTILI:
http://fanuessays.blogspot.com/2011/10/psicopatici-al-potere-conoscerli-per.html

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